Del narrare
Da poco è uscito un libro dedicato a Daniele Del Giudice, un grande scrittore italiano che ha sempre curato nei suoi libri l'esattezza delle parole e del linguaggio (e forse per questo ha scritto relativamente poco in un mondo in cui sembra che se non riempi pagine in continuazione non esisti come autore), ricordandoci però che l’esattezza è anche il miglior modo per indagare le zone d’ombra che circondano le parole e il nostro rapporto con esse. Il libro, intitolato Il mondo che ha fatto,[1] lo ha scritto Roberto Ferrucci, che di Del Giudice è stato amico per tanti anni e che si è sobbarcato un compito non da poco, perché ci offre un racconto che è allo stesso tempo la storia di un’amicizia e la storia di una perdita, visto che Del Giudice è stato colpito, ancora giovane, da una malattia neurodegenerativa che lo ha portato poco a poco a sparire, dalla scrittura, dal pubblico, dalle amicizie. Le pagine dedicate alla progressiva perdita della memoria linguistica di un autore che della scelta precisa di ogni parola e dell’economia espressiva controllata ed esattissima aveva fatto il principio della sua poetica sono tra le più tristi e laceranti che mi sia capitato di leggere in questi ultimi anni. Anche se poi non mancano passaggi di grande allegria, in cui si parla di scherzi e di tiri mancini giocati dallo scrittore ai suoi amici.
Come il personaggio kafkiano che si mette a volare a cavalcioni di un secchio per il carbone, Ferrucci si presenta come un “cavaliere del sacco”: il sacco nero pieno di ritagli e di vecchi articoli che a un certo punto l’amico gli affida e dal quale lui attinge aneddoti citazioni ricordi. Che sono ovviamente, come in tutte le amicizie, occasioni a volte di tenerezza o imbarazzo, altre volte di felicità e di nostalgia. In consonanza stilistica con l’opera e l’autore/amico che racconta, Ferrucci si affida a oggetti, gesti, fotografie: reperti affettivi di una relazione che passa per i pinguini in copertina di Orizzonte mobile, la Peugeot 304 cabrio color bronzo, l’aereo da turismo Socata TB9 Tampico, le macchine da scrivere, i roller a punta fine, il suono del fornello della pipa che viene grattato nell’audio di un’intervista, il bar dell’Hotel Intercontinental a Zagabria, i locali veneziani. Un repertorio di occasioni che è anche la restituzione del mondo che due amici costruiscono e che si scioglie (o si fissa in un ricordo definitivo, e perciò sempre un po’ falso, nella memoria e nella scrittura) nel momento in cui uno dei due inizia progressivamente a non esserci più. Alla fine del libro, troviamo una galleria di foto che invece di risolvere, con un supplemento visivo, il mistero del rapporto tra i due scrittori, lo acuisce e lo rende ancora più opaco. In ogni foto si vede sempre tutto, ma ancora di più si vede quello che è rimasto fuori campo e che richiederebbe altre descrizioni e altre parole.
Ma lasciamo per un attimo sullo sfondo la vicenda personale, per la quale rimando alla lettura di questo specialissimo memoir che è anche un benvenuto saggio critico su un autore del quale troppo poco si parla, per capire quale potrebbe essere un “uso” possibile della lezione di Del Giudice. Lezione che per me va ben al di là di quella, pur straordinaria, che riguarda tutti e tutte coloro che si accingono a scrivere anche solo una riga. Del Giudice è stato un grande indagatore del rapporto affettivo con la realtà, a partire da una constatazione: per descrivere il rapporto con quello che ci circonda occorre fare i conti con i sentimenti che il mondo ci ispira, e per arrivare ai sentimenti occorre darsi una disciplina molto stretta. Lo scrittore è un asceta dell’esattezza, perché solo imparando a descrivere il modo in cui ci posizioniamo nel mondo siamo in grado di comprendere come cambia il nostro modo di entrare in relazione con esso e il nostro sentimento nei suoi confronti.
Le storie, i sentimenti, i personaggi, la descrizione: riuscire a renderli totale provvisorietà; levare a ogni frase la terra sotto i piedi, levarle il fondamento, col gesto stesso con cui ci sforziamo di affidarla a una stabilità. - Daniele Del Giudice - IN QUESTA LUCE Einaudi 2013
Una cosa che colpisce leggendo i suoi libri è la passione di Del Giudice per la scienza e per la tecnica. Non intendo solo la scienza "alta", anche se uno dei suoi romanzi più belli, Atlante occidentale, è la storia dell'amicizia tra uno scrittore e un fisico del CERN di Ginevra, e rappresenta un tentativo, forse ancora insuperato, di gettare un ponte "narrativo" tra la descrizione letteraria e le descrizioni della fisica contemporanea. Per arrivare a qualcosa di molto più maneggiabile, Del Giudice racconta più volte di aver avuto da sempre la passione per i motori, e che fin da giovane si muoveva tra due "giri" di amicizie: dopo aver salutato gli amici "intellettuali" andava dagli amici motociclisti e si divertiva a smontare e rimontare i motori: che si trattasse di aerei o di libri, gli interessava il modo in cui le cose funzionano. Del Giudice aveva poi la passione per il volo: per lui volare era una vera e propria disciplina mentale e percettiva (e qui non posso che rimandare al bellissimo Staccando l’ombra da terra). Ha dedicato ad esempio tre conferenze tenute alla prestigiosa École des Hautes Études di Parigi a raccontare le vicinanze tra l'attività del narratore e quella del pilota. In entrambi i casi si tratta di affinare la percezione attraverso un gioco di correzioni progressive. Per pilotare un aereo occorre abbandonare la relazione abituale con lo spazio per affidarsi a quella “aumentata” fornita dagli strumenti di volo. Se ci comportassimo alla cloche come ci comportiamo a terra andremmo incontro a rischi tremendi.
Mi pare che questa sia una bella lezione anche per chi cerca di capire come muoversi nel mondo delle organizzazioni e delle comunità: i modelli di lettura della realtà non sono rappresentazioni realistiche di quello che accade, ma forme di alterazione controllata delle relazioni tra le persone. Muoversi nel contesto organizzativo vuol dire compiere una strana operazione di "strabismo" percettivo: mentre osserviamo le dinamiche in quella che ci sembra la loro espressione più naturale, dobbiamo essere sempre consapevoli di inserire, ad esempio attraverso il filtro dei ruoli o dei processi, alcune deviazioni nella nostra percezione rispetto a quello che osserviamo. Il rapporto tra le persone segue dei pattern che possiamo cogliere anche nel quotidiano, ma si tratta sempre di pattern che vengono modificati dall'attrito e dal "vento" della posizione della persona all'interno del contesto. Osserviamo le dinamiche "come se" fossero naturali, ma le variabili ci costringono a calcolare sempre un margine di deviazione.
“Del resto non c’è quasi nulla di diretto nel volo, ogni cosa per essere centrata e «immediata» deve essere preventivamente decentrata, corretta e calibrata; il suo essere nel centro va costruito attraverso un’intenzionale «scentratura», e scostamento”.[2]
Ecco allora che con questo dispositivo di scrittura allo stesso tempo “scentrato” e precisissimo, in consonanza con l’idea che è proprio la scoperta di una percezione obliqua che il volo aereo ha introdotto nella modernità, Del Giudice conduce la sua indagine sullo “stato dei sentimenti”. Per entrare in relazione affettiva con il mondo occorre passare per il filtro della nostra relazione con gli oggetti, e questo ci porta subito di fronte a un problema. Gli oggetti cambiano, e con essi si trasforma il nostro modo di sentire. Non possiamo “guardare” in faccia i sentimenti, sembra dirci, possiamo solo misurarne l’impatto indiretto che hanno su di noi, e questo approccio obliquo ha proprio nel rapporto con gli oggetti il banco di prova privilegiato. Le sue riflessioni sono attualissime e preveggenti, se pensiamo che vengono da testi scritti negli anni ottanta o novanta. Troppo interessati a parlare della crisi del soggetto, ci dice, non “ci si accorgeva di come le crisi e i mutamenti degli oggetti possono determinare anche piccole crisi e piccoli mutamenti nella soggettività. In che modo sono cambiati gli oggetti? In che modo siamo cambiati noi nel rapporto con essi? In che modo gli oggetti cambiano il nostro modo di essere? E come raccontare la storia di questa mutazione?”.[3] Del narrare p. 240.
Cambia ad esempio il rapporto col tempo, perché “L’oggetto era anche il testimone della memoria, l’oggetto parlava di chi l’aveva fabbricato e usato e tramandato”. E gli oggetti portano con sé dei saperi incorporati e suggeriscono forme di relazione tra le persone. Pensiamo solo al telefono (o al cellulare o a whatsapp, aggiungerei) e a come abbia introdotto una forma di distanza nei rapporti e negli affetti:
“voglio dire che molto spesso i sentimenti, mai come prima, sono affidati alla distanza, sono affidati a dei mezzi estranianti, si svolgono e sono rappresentati attraverso cose completamente lontane da quelle che li rappresentavano una volta. E tutto questo però non credo che ci esima dalla possibilità di trovare una profondità, una necessità e una intensità dei sentimenti e delle loro forme nel rapporto con gli altri”.[4] Del narrare pp. 218-219.
Ecco la poetica di questo scrittore dell’esattezza e del sentimento: sforzarsi di leggere le trasformazioni del mondo cercando di trovare la profondità dei sentimenti che le cose generano con le loro trasformazioni. Sforzarsi di chiedere come le nuove cose, nella loro immaterialità, trasformano il nostro orizzonte, mi pare una delle indicazioni che Del Giudice ci consegna (come l’IA cambia il nostro senso del conoscere e del sentire, quale idea di luogo ci suggeriscono le trasformazioni del mondo del lavoro, quali sentimenti accompagnano la socialità digitale, mi sembrano ad esempio delle domande che potremmo iniziare a porci se volessimo raccogliere queste indicazioni).
Un'altra cosa su cui Del Giudice insisteva era la cura delle parole come forma di etica e di responsabilità. Per questo faceva spesso riferimento a Joseph Conrad che, oltre ad aver abitato come scrittore la soglia tra XIX e XX secolo, era stato a lungo ufficiale e comandante di marina. Era quindi ben consapevole delle conseguenze pratiche delle decisioni, che non vengono mai prese in astratto, ma sono il frutto di un sapere situato e circostanziale. Ad esempio, in un passaggio di uno dei suoi capolavori, Cuore di tenebra, compare in una capanna, lasciato da non si sa da chi, un libro apparentemente incongruo: An Inquiry into Some Points of Seamanship, che si potrebbe tradurre con "indagine su alcuni punti dell'arte marinaresca". E commenta Conrad, che ovviamente non ha arredato in modo casuale quello spazio narrativo: "Insomma, non era un libro molto avvincente, ma si coglievano a prima vista una serie di intenti, uno schietto interesse per il modo corretto di affrontare un lavoro, e di conseguenza quelle umili pagini si rivelavano luminose di una luce non soltanto professionale". E conclude "Il fatto che un libro simile fosse lì era meraviglioso". Mi colpisce questo aggettivo, meraviglioso, che rovescia all'improvviso quel senso di scarso interesse (e insomma di noia) che sembrava caratterizzare all'inizio il ritrovamento di quel libro. Qual è la meraviglia per Conrad (e per Del Giudice)? È la meraviglia di un manuale che contiene delle indicazioni di condotta, il "come dovremmo comportarci" pratico che accomuna il pilota di un aereo, sempre attentissimo a fare le sue check list prima di volare perché una volta decollati il tempo si rivela nella sua inesorabile non reversibilità, e il marinaio che per affrontare il mare deve soprattutto saper fare delle cose in modo concreto e preciso.
Prima di debuttare con Lo stadio di Wimbledon, Del Giudice è stato un critico letterario e, come mostra bene Ferrucci, alcuni suoi interventi critici sono già scritti dalla posizione di chi si appresta a passare dall'altra parte. Accanto a Italo Calvino, Primo Levi, Italo Svevo, Franz Kafka, proprio Joseph Conrad è stato uno dei grandi autori che hanno accompagnato Del Giudice lungo tutto il suo percorso. C’è un passaggio dell’autore di Cuore di tenebra su cui Del Giudice torna in più di un’occasione. Ad esempio, nel testo di un intervento del 1988, scrive:
“l’ultimo sentimento di cui volevo parlarvi era il sentimento della responsabilità” (e il fatto che la responsabilità sia un sentimento mi sembra una cosa bellissima, su cui potremmo soffermarci). E prosegue: “Io non credo alla morale predicativa, all’etica predicativa, cioè ai libri nei quali c’è scritto cosa bisogna fare, come bisogna comportarsi”. Preferisce i manuali, i libri dove c’è scritto “cosa bisogna fare per far crescere una pianta, per tenere bene un’automobile o una motocicletta”.[5]
Per fare un esempio di scrittura non “prescrittiva” e simile a un manuale, fa riferimento proprio a un passaggio in cui Conrad dice che, pur avendo scritto tantissimo e su tantissime cose, si troverebbe di fronte a un particolare sentimento di responsabilità se dovesse produrre quei testi umili e precisi che sono gli “Avvisi ai naviganti”. Ecco cosa dice:
“la prosa degli avvisi ai naviganti ha unicamente un ideale da raggiungere e da osservare: ed è l’ideale della perfetta esattezza (...) non mi vergogno a confessare che se mi dicessero di scrivere un Avviso ai naviganti, forse non pregherei - perché ho delle convinzioni mie sull’abuso delle preghiere - ma certamente digiunerei, digiunerei la sera e mi alzerei per scrivere il mio Avviso ai naviganti alle quattro di mattina per paura di incidenti”.[6]
Cosa ci sta dicendo Conrad, e con lui Del Giudice? Che nella proliferazione incontrollata delle parole e delle scritture, farsi carico di un’etica delle parole, un’etica improntata non alla prescrizione ma alla descrizione e alla cura può essere un'indicazione fondamentale per il nostro modo di stare al mondo.
Mi piace questa attenzione alla non avvincente normalità che informa molte delle nostre attività. A volte, sempre a caccia dell'eccezionale che dovrebbe dare senso alla nostra vita, non ci accorgiamo che la meraviglia consiste nel lavoro ben fatto o nella cura per un dettaglio che, nella sua noiosa ripetibilità, ci mette di fronte a un compito di tipo etico. Lascio la parola a Del Giudice:
"Anche una tecnica procedurale custodisce infatti al suo interno, nascoste nella sua operatività, idee di comportamento e orientamento, percorsi della mente e della percezione, e produce nuove metafore, piccole e grandi, di portata più generale, le quali rifluiscono nel senso comune".[7]
Tra le pagine, troppo poche, ma sempre luminose, che Del Giudice ci ha lasciato possiamo trovare un’etica del lavoro ben fatto (che lo accomuna al Primo Levi di La chiave a stella), della responsabilità, della condotta che è importante assumere per pilotare, con sguardo attento e obliquo, le nostre imprese personali e collettive. Soprattutto quando le strategie di indagine diretta della realtà mostrano il loro limite.
“Mi piacerebbe condurti fino al punto in cui si smette di capire, si smette di immaginare, vorrei condurti dove si comincia a sentire” ―
Riferimenti bibliografici
Il memoir critico/biografico di Roberto Ferrucci si intitola Il mondo che ha fatto ed è uscito per La nave di Teseo nel 2025. I libri di Del Giudice si trovano in edizione Einaudi e sono tutti da leggere. Si può iniziare da Lo stadio di Wimbledon (1983) e lasciarsi stupire dall’assoluta padronanza stilistica di un esordiente che racconta un viaggio sulle tracce del “non scrittore” Bobi Bazlen, oppure da Atlante occidentale (1985), romanzo che interroga la soglia tra cultura letteraria e cultura scientifica, forse il suo capolavoro. Staccando l’ombra da terra (1994) è un’indagine, sospesa tra narrazione e saggistica, sull’arte del volo e sulla trasformazione dei sentimenti che ha generato. La spedizione antartica di Orizzonte mobile (2009) è un resoconto della mania e della condotta etica di chi ha intrapreso viaggi impossibili, oltre che la testimonianza in prima persona di cosa vuol dire confrontarsi con un ambiente “al limite”. Ma Del Giudice è stato anche un maestro della forma breve e i suoi racconti sono stati raccolti in volume nel 2016. Infine, In questa luce (2013) e Del narrare (2023) ci conducono nel laboratorio critico e saggistico dello scrittore e mi hanno guidato in queste mie riflessioni.
Note
[1] R. Ferrucci, Il mondo che ha fatto, La nave di Teseo, Milano 2025.
[2] D. Del Giudice, In questa luce, Einaudi, Torino 2013, pp. 154-155. .
[3] D. Del Giudice, Del narrare, Einaudi, Torino 2023, p. 240.
[4] Ivi, pp. 218-219.
[5] D. Del Giudice, Del narrare, cit., p. 225
[6] Ivi, p. 187
[7] D. Del Giudice, In questa luce, cit., p. 148.