Con l’irrompere della Rivoluzione Industriale sulla scena storica, la progettualità – da sempre appannaggio dell’intuizione individuale, della sapienza artigianale e della prassi empirica – subì una metamorfosi profonda e irreversibile. Da arte incarnata nel gesto dell’uomo esperto, essa fu progressivamente riconfigurata come scienza applicata alla produzione: un sistema di regole, metodi e procedure, ispirato a una razionalità calcolante e orientato all’ottimizzazione dei processi. Le scoperte geografiche e scientifiche, insieme alla fiducia illuminista nella possibilità di ordinare il mondo attraverso la ragione, avevano già predisposto il terreno per questa trasformazione. L’industria, con la sua logica meccanica e il suo ritmo incessante, ne fu il motore acceleratore.
All’interno di questo nuovo paradigma si affermò la figura di Frederick Winslow Taylor, autore nel 1911 del trattato The Principles of Scientific Management, opera fondativa della moderna organizzazione del lavoro. Taylor sosteneva che ogni attività produttiva potesse – e dovesse – essere scomposta in elementi semplici, analizzati scientificamente, cronometrati, e infine riassemblati secondo criteri di massima efficienza. Il tempo divenne unità di misura fondamentale, e il lavoro manuale fu spogliato del suo carattere artigianale per essere ricondotto a una sequenza di movimenti standardizzati, replicabili in qualunque contesto e da qualunque operatore.
Con Taylor, il project management cessò di essere un’arte situata, per diventare un dispositivo tecnico. I project manager non erano più visionari artigiani della complessità, ma ingegneri della produttività, chiamati a presidiare l’efficienza, il controllo, la prevedibilità. Il lavoro umano, da atto creativo, si ridusse a funzione sistemica. Se da un lato ciò rese possibile la nascita della produzione su larga scala, con incrementi notevoli in termini di output e riduzione dei costi, dall’altro sancì la marginalizzazione della soggettività del lavoratore, ora trasformato in mero ingranaggio all’interno di un apparato impersonale e gerarchico.
Questo disegno teorico trovò la sua più compiuta incarnazione nel fordismo, ossia nel modello produttivo implementato da Henry Ford nei primi decenni del Novecento. Con l’introduzione della catena di montaggio, Ford trasformò l’industria automobilistica – e con essa l’intera concezione della fabbrica – in un organismo scandito da tempi certi, mansioni ripetitive, funzioni rigidamente assegnate. La Ford Model T, simbolo di tale rivoluzione, passò da un costo di 850 dollari nel 1908 a soli 290 nel 1927, diventando l’archetipo del prodotto industriale accessibile alle masse.
Nel quadro del project management, il fordismo consacrò due principi destinati a durare: standardizzazione e divisione del lavoro. Ogni processo doveva essere regolato da procedure univoche, ogni fase concepita come parte di un meccanismo più ampio, pensato per garantire risultati riproducibili e coerenti. Questa logica si diffuse in ogni ambito produttivo: dalla meccanica all’edilizia, dall’industria chimica all’amministrazione aziendale, definendo un ethos della pianificazione come sinonimo di ordine, rigore e controllo.
Tuttavia, l’euforia dell’organizzazione scientifica mostrò ben presto le sue incrinature. Il lavoro ripetitivo, spogliato di senso e di varietà, si rivelò alienante per molti operai, che iniziarono a reagire con scioperi e contestazioni. La macchina produttiva, per quanto efficiente, appariva incapace di far fronte alle esigenze di un mondo in cambiamento, dove l’innovazione, la flessibilità e la personalizzazione si imponevano come nuovi imperativi strategici. Il sogno taylorista si infrangeva contro i limiti della sua stessa logica.
Fu nel secondo dopoguerra, e in particolare in Giappone, che emersero modelli alternativi, capaci di combinare efficienza e adattabilità. Il Toyota Production System, sviluppato da Taiichi Ohno e Shigeo Shingo, introdusse una nuova grammatica produttiva, fondata sull’eliminazione degli sprechi (muda), sul miglioramento continuo (Kaizen), e sulla produzione Just-In-Time. In opposizione alla logica dell’accumulo, il TPS proponeva un sistema flessibile e reattivo, dove ogni attività veniva giustificata solo se generava valore per il cliente. La produzione cessava di essere fine a sé stessa: diventava risposta puntuale a un bisogno specifico.
Questo approccio trasformò anche il modo di concepire e gestire i progetti. Il project manager non era più il sorvegliante di una catena rigida, ma il facilitatore di un processo in continuo divenire, un regista di flussi e adattamenti. Le idee del TPS migrarono poi nel mondo occidentale, influenzando dapprima la manifattura, quindi il settore tecnologico e informatico, fino a tradursi in metodologie oggi note come Agile, Lean e Scrum.
Nel frattempo, tra Stati Uniti ed Europa, prendevano forma strumenti e tecniche di pianificazione sempre più avanzate. Negli anni ’50, la Marina statunitense sviluppava il PERT (Program Evaluation and Review Technique) per gestire la complessità dei progetti aerospaziali. In parallelo, il diagramma di Gantt, perfezionato da Henry Gantt, offriva una rappresentazione visuale del progetto e delle sue dipendenze temporali. Era l’alba del project management moderno, fondato su una triade di controllo: tempo, costi, risorse.
Ma è proprio nel trionfo della standardizzazione che si cela il suo paradosso più sottile. In nome dell’efficienza, il project management rischiava di perdere l’anima. Se nel Rinascimento l’architetto incarnava l’ideale dell’uomo universale – scienziato, filosofo, artista e costruttore –, nell’era industriale il project manager si riduceva a tecnico dell’organizzazione, distante dalla sostanza viva del progetto, talvolta prigioniero delle sue stesse griglie metodologiche. Il pericolo era che la forma prevalesse sul contenuto, che la gestione diventasse un fine anziché un mezzo.
La lezione che ci viene dalla grande stagione industriale è dunque ambivalente. Essa ci ha lasciato in eredità strumenti formidabili – dalla misurazione del tempo alla modellazione dei processi – che costituiscono ancora oggi l’ossatura della gestione progettuale. Ma ci ha anche ammoniti sui rischi di una razionalizzazione cieca, che dimentica la dimensione umana, l’inventiva, il potere generativo dell’errore e della deviazione.
Oggi, nell’epoca della digitalizzazione diffusa, dell’intelligenza artificiale generativa e dei team asincroni e distribuiti, ci troviamo di fronte a una nuova fase della progettualità. Le metodologie Agile e gli strumenti di collaborazione virtuale ridisegnano il tempo e lo spazio del lavoro; le piattaforme predittive promettono di anticipare ogni imprevisto; l’automazione sembra voler sostituire il giudizio umano. Eppure, proprio in questo scenario ipertecnologico, torna urgente ricordare che la progettualità, prima ancora che tecnica, è arte del discernimento, capacità di leggere i segni del contesto, di intuire i bisogni latenti, di costruire senso prima ancora che soluzioni.
Come ci ricorda la storia dell’industria, un progetto non è mai solo l’esecuzione di un piano: è sempre anche una scommessa sul futuro, un atto creativo che richiede visione, responsabilità e, soprattutto, la disponibilità ad apprendere nel mentre si agisce.
Bibliografia
Feenberg, A. (2010). Between reason and experience: Essays in technology and modernity. MIT Press.
Feenberg, uno dei maggiori filosofi contemporanei della tecnologia, raccoglie in questo volume una serie di saggi che pongono in discussione la neutralità della tecnica. Egli propone un approccio critico-tecnologico che mostra come ogni sistema tecnico sia anche un costrutto sociale e culturale. Il testo è rilevante per comprendere la razionalizzazione della progettualità moderna, analizzando il passaggio da una tecnica incarnata a una tecnica istituzionalizzata, come descritto nel tuo saggio. La tensione tra efficienza e umanità è qui affrontata con profondità filosofica.
Ohno, T. (1988). Toyota production system: Beyond large-scale production. Productivity Press.
In questo libro, Taiichi Ohno — considerato il padre del sistema produttivo Toyota — descrive in modo diretto i principi che hanno rivoluzionato la produzione industriale nel secondo dopoguerra. Attraverso concetti come il Just-In-Time e il Kaizen, Ohno introduce una visione della produzione come sistema adattivo, capace di rispondere al contesto in tempo reale. Il volume è centrale per comprendere la svolta “post-fordista” e l’emergere di una nuova figura di project manager: non più solo pianificatore, ma facilitatore di processi evolutivi.
Noble, D. F. (1984). Forces of production: A social history of industrial automation. Oxford University Press.
David Noble offre un’analisi storica e politica dell’automazione industriale negli Stati Uniti, mostrando come le scelte tecnologiche siano influenzate più dalle logiche di controllo e potere che da una semplice ricerca di efficienza. Il libro decostruisce il mito dell’automazione come progresso neutro e inevitabile. Per il tuo testo, rappresenta una fonte preziosa per supportare la critica alla trasformazione del lavoro in funzione sistemica e impersonale, tipica del fordismo e del taylorismo.
Crawford, M. B. (2015). The world beyond your head: On becoming an individual in an age of distraction. Farrar, Straus and Giroux.
Crawford, filosofo e meccanico, parte dalla sua esperienza nel lavoro manuale per riflettere sul ruolo dell’attenzione, dell’esperienza incarnata e del contatto con il reale nel mondo moderno. Il libro contrappone la distrazione digitale e la managerializzazione della vita al sapere tacito dell’artigiano. È particolarmente utile per supportare la tua riflessione sull’origine della progettualità come pratica empirica, intuitiva e situata, prima della sua razionalizzazione taylorista.
Boltanski, L., & Chiapello, È. (2005). The new spirit of capitalism (G. Elliott, Trans.). Verso. (Original work published 1999)
In questo saggio sociologico di vasta portata, Boltanski e Chiapello analizzano come il capitalismo abbia assorbito la critica sociale e artistica del ‘68 trasformandola in una nuova ideologia del lavoro flessibile, creativo, autonomo. La managerialità postmoderna si presenta come anti-gerarchica e partecipativa, pur mantenendo logiche di sfruttamento e controllo. Il libro è fondamentale per comprendere il passaggio dalle metodologie rigide del passato alle apparenze di libertà del project management Agile, che rischia però di mascherare nuove forme di alienazione.