«Ho osservato spesso i contadini di queste parti aggiustare le loro vecchie case, fanno sempre tutto da soli. I mezzi economici sono quelli che sono: prodotti dei campi e fatica di braccia, il lavoro produce lavoro! Quando abbiamo ricostruito questa casa ho cercato di imitarli, ma per un “professore” prestare manodopera era considerata una stranezza, il capriccio di un bizzarro benestante. Una cosa è certa: per quanto riguarda le risorse economiche questa casa è nata solamente sulle parole. Chissà se è più fragile?»
Qui il professor Malinverni fece una lunga pausa guardando fisso un punto nel terreno; nessuno osò intervenire. Poi riprese con un tono diverso, più riflessivo, abbandonando quell’enfasi che caratterizzava spesso i suoi interventi quando era impegnato a descrivere quell’antropologia rurale, tutta toscana, alla quale si sentiva particolarmente legato.
«Bertrand Russell in un articolo pubblicato dall’Harper’s Magazine negli anni Trenta, intitolato Elogio all’ozio, sosteneva con grande semplicità e chiarezza che esistono due tipologie di lavoro: chi fa le cose direttamente e chi, mediante parole, dice ad altre persone come le devono fare. I secondi guadagnano sempre di più. Costruiamo case più rapidamente!»
Ricordo molto bene quelle parole e quando vennero pronunciate. Era il 29 luglio del 1962. In compagnia degli amici di sempre, Lucio Baldini ed Ernesto Dettori, più altri studenti e professori del Liceo Petrarca di Arezzo, eravamo saliti a Pontenano in Valdarno, dove viveva il professor Malinverni, per festeggiare il suo sessantesimo compleanno. Quelle parole non vennero pronunciate a caso ma all’indirizzo di alcuni suoi colleghi “cittadini”. Il professor Malinverni era di origini modeste e rappresentava, per l’Italia di allora, un raro esempio di chi aveva potuto studiare. A noi ragazzi concedeva spesso di fargli visita ed eravamo in molti a non farci pregare. La gita a casa Malinverni, da noi denominata “muscoli e cervello”, garantiva corse in bicicletta a rotta di collo su e giù per le colline, seguite da spericolate dissertazioni filosofiche. La guida era un insegnante capace di dialogare con le menti acerbe, ma affamate di conoscenza, di noi studenti non ancora diciottenni.
In quella calda giornata di piena estate tra gli altri era presente Emilio, un manovale che frequentava spesso casa Malinverni. Emilio era un tipo schivo, di cui nessuno conosceva esattamente l'età. Il professor Malinverni sosteneva che quel nome era stato scelto da un lontano parente, cultore di Rousseau, che aiutò la madre quando, ancora incinta, rimase vedova. Molti lo descrivevano come impulsivo e soggetto a scatti d’ira. Non so dire quanto quelle voci fossero vere, ma con il professore si comportava sicuramente in modo diverso. Nutriva verso di lui una specie di venerazione, e la cosa risaliva a tempi lontani. Pare che, durante gli anni del fascismo, Emilio si fosse trovato più volte a mal partito; provava un’antipatia naturale nei riguardi delle camicie nere e non faceva nulla per nasconderlo. Il professor Malinverni, nonostante fosse antifascista, aveva trovato sempre il modo di aiutarlo. Le cose purtroppo precipitarono quando Emilio prese di mira un potente gerarca locale e finì in carcere. In quell’occasione il professore fu costretto a fare appello a conoscenze e a tutta la sua autorevolezza per farlo uscire, peraltro malconcio, di fatto più morto che vivo. Da allora Emilio prese a volergli bene come a un fratello.
Per quanto analfabeta e solitamente taciturno, con il professore Emilio aveva un rapporto schietto. Così al termine del discorso lo avvicinò e chiese il senso di quelle parole.
«E’ un po’ come se le parole fossero mattoni», rispose il professore e continuò «Emilio, tu metti i mattoni uno dietro l’altro, così ti guadagni da vivere, noi le parole!».
«E la calce?», chiese Emilio.
«Già, la calce! Tu mi sorprendi sempre. Beh … la calce sono parole più piccole, congiunzioni, pause, accenti, punteggiatura.» Poi ridendo aggiunse: «A volte tanto fumo.» Emilio ascoltò attento, sembrò afferrare il concetto, non disse nulla e tornò alle sue occupazioni. Il pomeriggio continuò allegramente, tra giochi e piacevoli discussioni, ma ebbi l’impressione che in quel teatrino si fosse consumata la parte migliore di quella giornata, che finì tra i saluti e gli abbracci quando ormai il sole tramontava.
Qualche anno dopo il professore si ammalò gravemente. Da quando frequentavo l’università a Firenze mi recavo a fargli visita un paio di volte all’anno, tradizionalmente per le feste natalizie e durante il mese di agosto. Credo che fosse novembre quando seppi del suo stato di salute e decisi di anticipare l’incontro. Andai da lui una domenica.
Lo trovai seduto in veranda. All’inizio nessuno dei due fece cenno alla malattia: parlammo invece a lungo degli anni degli studi e dei miei progetti per il futuro. A un certo punto arrivò Emilio. Lo salutai con un cenno del capo ricevendo in cambio uno sguardo più lungo del solito. Conoscendolo, potevo ritenermi soddisfatto. Insieme accompagnammo il professore nella sua stanza e lo aiutammo a sedersi sul letto, Emilio si sistemò in un angolo. Una volta sul letto, il professore mi parlò della sua malattia. Lo fece nel suo stile. Mi prese la mano e in modo semplice e diretto mi confidò che ormai gli restava poco tempo da vivere.
«Marco», mi disse ancora congedandomi, «sulla mia tomba molti porteranno fiori, ma da voi voglio parole, mi raccomando, solo parole!»
«Ci conti», affermai. Lo abbracciai e tradendo l’emozione scivolai fuori dalla stanza.
La notizia della sua morte mi raggiunse alcuni mesi dopo a Firenze, mentre ero impegnato nella preparazione della tesi. Abbandonai tutto appena mi fu possibile ma arrivai a Pontenano il giorno dopo il funerale. Salii in solitudine al piccolo cimitero della Pieve: non portavo nulla con me a parte un foglio ripiegato tra le mani. Poche parole che, mantenendo fede alla solenne promessa, dedicavo alla memoria del nostro amato maestro.
Due colonne di pietra e un vecchio cancello delimitavano l’ingresso a un grande prato attraversato da un viale. Varcando il cancello individuai immediatamente un angolo pieno di fiori e la terra mossa di fresco. Mi avvicinai. Una semplice lapide di marmo, appoggiata in modo provvisorio, riportava i dati essenziali: Nicola Malinverni 29 luglio 1902, 6 marzo 1968. Qua e là in terra, tenuti fermi da ciottoli di fiume, una decina di fogli di carta ripiegati. Li lessi uno ad uno, attentamente, prima di sistemare il mio in mezzo agli altri. Fu allora che notai un grosso mattone: lo sollevai ma non trovai nulla. Un istante fu sufficiente per ricordare tutto e quasi d’istinto mi voltai. Vicino al cancello d’entrata, appoggiato a una colonna, vidi Emilio. I nostri sguardi s’incrociarono per un attimo, dopodiché si dileguò. Da allora non l’ho più rivisto, anche perché raramente sono tornato in Valdarno.
Sono passati venticinque anni da allora. Oggi insegno, mi occupo di letteratura e collaboro con le pagine culturali di alcuni quotidiani. Organizzo corsi, partecipo a convegni, tengo seminari. Le parole mi seguono ovunque, sono lo strumento più importante del mio lavoro e spesso, per molti, la misura delle mie conoscenze. Eppure, mai credo di avere imparato tanto come dal rispetto che il professor Malinverni aveva per le parole e dall’uso intelligente e parsimonioso che Emilio faceva dei mattoni e della calce.