Le grandi metropoli europee, da Parigi a Londra e Berlino, pioniere di una rapida urbanizzazione, a seguito delle due Rivoluzioni Industriali, hanno sollecitato metodi ed occhi nuovi per essere comprese, raffigurate e narrate.
La figura del flâneur nasce e viene resa celebre dall’immenso Baudelaire nella prima metà dell’Ottocento. Ad indicare l’uomo che percorre la città con passo lento, vagando e bighellonando, senza fretta, senza meta.
La flânerie è dunque un atto ozioso, non necessario e senza scopo. Inutile, ma indispensabile per sperimentare le proprie emozioni attraverso l’osservazione attenta del mondo circostante. È la curiosità l’elemento trainante che induce a uscire di casa. Per lasciarsi andare allo stupore, nell’incontro con l’alterità. Spalancare i propri pensieri su strade, sconosciuti e oggetti. Sostare su minuscoli dettagli. Dilatare l’immaginazione.
La flânerie, questo incedere curioso e introspettivo, si sviluppa con questa funzione. Appannaggio iniziale esclusivo degli uomini. È infatti il passante-voyeur ad attraversare le moderne città metropolitane. Ad interrogarsi, riflettere e soprattutto appropriarsi dell’ignoto, del diverso.
Errare, peregrinare, vagabondare. Dal centro alla periferia, e ritorno, senza meta
Fino alla metà del XIX secolo, se una figura femminile si doveva spostare in città, lo faceva essenzialmente di giorno, per fare acquisti. Pensiamo alle madri, alle governanti. Non erano ancora libere di gironzolare autonomamente e di notte, perché travolte da sguardi indiscreti, addirittura offese, riconducibili a quelle di donne da marciapiede, prostitute, passeggiatrici appunto.
Solo verso gli inizi del Novecento la donna inizierà a permettersi di camminare liberamente, fino ad attribuirsi l’accezione di “femme errante”, non priva di qualche esitazione. È proprio nel cuore culturale della capitale inglese, nel quartiere londinese di Bloomsbury, che Virginia Woolf si riserva una Stanza tutta per sé dove dedicarsi alla scrittura e alla lettura, sostenuta da un contesto vitale e da scoperte sia sociali sia intellettuali.
Russel Square, Gordon Square sono solo alcune delle piazze ubicate nel distretto e in cui la Woolf ha passeggiato nel corso della sua esistenza. Molte delle trame narrative che ha prodotto - e di cui abbiamo traccia nei Diari degli anni Venti - sono nate proprio durante le sue passeggiate in questi luoghi.
Pensiamo alle passeggiate di Mary Datchet e Katharine Hilbery in Night and Day.
Mary cammina assorta e quasi annoiata dalla ripetitività dei suoi pensieri e delle sue azioni.
Si dirige ogni giorno dal suo appartamento in affitto, come volontaria, a Russel Square, sede del suffrage office. Avvolta dal flusso di businessman, che al contrario, ci dice, saranno pagati per il proprio lavoro.
Katharine passeggia invece come se fosse uscita di casa per la prima volta, con quell’atteggiamento di scoperta e avventura. Evanescente e incurante di ciò che la circonda.
Ma è con Clarissa Dalloway che si emancipa la passante, da semplice preda dell’immaginazione maschile, alla più celebre flâneuse woolfiana, cacciatrice di emozioni, alla conquista di una relazione autonoma con la città.
Città che in pieno modernismo viene celebrata per l’esuberanza, il movimento incessante e armonico delle persone, dei veicoli. La pluralità dei suoni, dei colori, dei negozi. Un caos che inneggia alla vita, contrariamente ad altre contemporanee narrazioni che ne evidenziano l’alienazione.
Non viviamo forse in una delle città detentrici del patrimonio artistico e culturale più invidiabile al mondo? Ma laddove non esistesse? Come riflettere sul potere liberatorio e rivoluzionario del camminare? Questa possibilità è alla portata di chiunque? O esistono ancora luoghi e momenti del giorno preclusi?
Purtroppo la libertà delle donne di camminare di notte, potrebbe ancora spesso essere interpretata arbitrariamente da altri passanti come disponibilità sessuale. Ma in questa sede ribadiamo a tutti e tutte l’invito a rieducare lo sguardo. Ad esercitarlo, ad allenarlo.
Ad ascoltarsi, osservarsi e immergersi fino ad amalgamarsi con ciò che si incontra. Con il cuore aperto, trasportati dalla curiosità e dall’istinto. Disposti a stupirsi. Per generare bellezza, risvegliare emozioni e produrre nuove narrazioni.
Errare, peregrinare, vagabondare. Dal centro alla periferia. In vicoli misteriosi, sulle banchine ferroviarie, divorando murales, scoprendo cantucci nascosti, storie dimenticate, persone straordinarie. Fra sagome e comparse che si trascinano e ingombrano il passaggio. Fra visi truccati, sguardi fugaci e familiari, membra stanche, sorrisi rubati. Fra vivaci profumi, ripugnanti fetori.
Pochi minuti di passeggiata permettono di intersecare centinaia di storie. Che il più delle volte si sfiorano e basta. Altre accompagnano timidamente per qualche tratto. In certi casi si scontrano. Inaspettatamente travolgono.
Occhi, orecchie, mani, piedi, cappelli, borse, scarpe, voci. E ancora direzioni, posture, intenzioni, stati d’animo. Come in un carosello regolato dal caso. Una giostra in cui preferire un’eroina o un eroe e seguirne il viaggio nella moltitudine. Quante storie si possono escogitare! Questa è la flânerie, ovvero l’arte di girandolare e ruzzolare in un caleidoscopio di emozioni.
Pensiamo ai percorsi lunghi, anche, di settimane o mesi. Viaggi in cui si è rapiti da luoghi e sapori insoliti, colori sgargianti, suoni stridenti. Dimensioni che ci consentono di entrare in contatto con parti di noi sconosciute.
Con quelle che accolgono e che spesso respingono. Veri e propri cammini spirituali. Che ispirano, rinnovano, arricchiscono.
La flânerie dunque intesa anche come marcia per valicare i propri limiti e pregiudizi. Tuttavia, un’attitudine che accompagna più spesso chi cammina da solo, profondamente connesso a sé stesso, flâneuse o flâneur, che dir si voglia.