L'arte del cantastorie, del poeta, del romanziere, del regista accompagnano il cittadino curioso che non si arrende e vuole capire, giudicare, scegliere.
Nessuna scienza è in grado di fornire una esaustiva visione del mondo. I tentativi di fact checking nulla possono con la complessità del reale. In luogo di tentare di affermare una verità indiscutibile, si possono però raccontare i tentativi di cercare.
La pura narrazione esagera e distorce, e così, non pretendendo di dirci in modo definitivo 'come stanno le cose, ci ammonisce, ci invita a pensare.
La pura narrazione prende un singola, piccola storia, e la eleva a metafora che ci apre la strada a connessioni, a spiegazioni, ad analisi e a sintesi.
Pensare è faticoso. Ma la leggerezza del racconto ci permette di attraversare zone oscure intravvedendo una luce; ci spiana la strada. Ecco perché la Stultifera Navis imbarca volentieri pure narrazioni.
Fino a quarant'anni ho perso tempo a giocare
Come ebbe poi a dichiarare, l'idea gli venne in mente durante l'intervista concessa in occasione del suo ottantesimo compleanno ad una giornalista dedita non a questioni di management o d'affari, ma a fatti di costume. L'intervista apparve nell'ottobre 2064. Il libro, però, è dato alle stampe solo sette anni dopo.
Questo arco di tempo è ulteriore segno del carattere di Giorgio Chiellini: mai superficiale, supplisce all'almeno apparente carenza di doti tecniche non solo con la costante applicazione, ma soprattutto con l'acuta intelligenza e con l'attitudine riflessiva.
Essendo questi gli aspetti distintivi di Chiellini, il manager che forse più di ogni altro ha segnato la storia della cultura imprenditoriale non solo italiana dell'ultimo mezzo secolo, si è molto discusso in questi mesi a proposito del titolo della sua opera uscita in febbraio - saggio a cavallo tra la profonda riflessione autobiografica e la proposta di un'etica del management, che come si sa ha scalato le classifiche dei best seller.
Varie le opinioni espresse da studiosi di management e di organizzazione aziendale, così come da opinionisti e recensori di pagine culturali. A ciò ovviamente si aggiungono le opinioni di quadri aziendali e di lavoratori in genere, che tanto devono alle sue politiche in favore del lavoro umano; ed anche le opinioni espresse in chiacchiere da bar sport: gli antichi trascorsi sportivi di Chiellini, infatti, non sono del tutto dimenticati.
Il titolo, dunque: Because Marchionne isn't the best of all possible managers.1 Perché Chiellini, campione dell'understatement, sempre lontano dalle vane polemiche, abbia sentito il bisogno di citare esplicitamente, già nel titolo, la sinistra figura alla quale ormai quasi unanimemente si attribuisce il declino di una costruttiva cultura d'impresa, non solo nel nostro paese, resta un mistero.
Ma forse Chiellini, padre saggio ormai fuori dai giochi, silente nel suo eremo elbano, ha inteso dire un'ultima parola, segnando in modo inequivocabile una differenza, ed anche ammonendo su rischi futuri. La figura del manager che agisce per il proprio personale arricchimento, e che risponde ad unico padrone, e che anzi si cerca il padrone nel portatore di interessi più debole, ignorante ed egoista, potrebbe sempre risorgere. Chiellini ci mette in guardia, e oppone a questa figura di manager non un modello astratto di onestà e di etica, ma, semplicemente, la propria personale storia di vita, ovviamente segnata da incertezze ed errori.
Non è vuota retorica notare che le pagine di Chiellini -dove poi il nome di Marchionne, in realtà, appare solo in qualche nota a piè pagina- sono un inno alla responsabilità personale del manager. E non è peregrino notare, come hanno giustamente fatto altri recensori- il filo rosso che lega la sua autobiografia ragionata ad un'opera mossa da analogo intento critico ed autocritico, e considerata come antico classico. Entrambe le opere segnano tappe chiave della storia del management.
Stiamo parlando, come è noto, Alfred P. Sloan, e dei suoi Years with General Motors.2 Circostanze storiche avvalorano il parallelo: a cento anni di distanza sia Sloan che Chiellini scrivono avendo già passato la meta degli ottantacinque anni. Non deve essere considerato un caso che l'autobiografia di Sloan fu considerata dal New York Times come an important book, che sarà "letto, studiato e citato per many years to come". Ed ora lo stesso quotidiano accoglie con pressoché analoghe parole l'opera di Chiellini.
Qualcuno ha anche posto l'accento sul fatto che entrambi i libri escono presso la stessa sigla editoriale: Doubleday, New York. Veramente, non può trattarsi di un caso. Così come in generale Chiellini si rifiuta di commentare la propria opera, a maggior motivo non esprime opinioni in merito a questi dettagli editoriali. Ma certo la fama globale garantiva a Chiellini un liberissima scelta dell'editore. E l'opera appare del tutto lontana da prodotti editoriali confezionati in base a progetti nate dalla fantasia commerciale di publisher. L'opera è evidentemente tutta farina del sacco di Chiellini. E così deve esserlo anche la scelta dell'editore. Se ora Chiellini ha scelto Doubleday, esisteranno certo i motivi. E' ben presumibile supporre che Chiellini voglia sottilmente proporre un legame tra la sua e l'opera di Sloan. E si può supporre che voglia ancor più sottilmente ricordare, anche con la scelta del nome dell'editore che campeggia in copertina, la parabola storica delle imprese che perdono di vista il proprio scopo. Si può infatti ricordare che, per un passaggio di mano generazionale, e per manie di grandezza, la casa editrice Doubleday, proprio negli anni in cui pubblicava l'opera di Sloan, perse di vista la propria vocazione. Ed oggi sopravvive come mero reperto storico, marchio di proprietà di grandi Corporation, disinteressate al business dell'editoria.
Ma le consonanze tra Sloan e Chiellini vanno ben oltre questi marginali aspetti, dei quale la critica accademica è sempre così ghiotta.
Infatti il maggior pregio di entrambe le opere è la loro distanza dall'accademia. Sono opere scritte per fortuna non da studiosi di management, ma da manager che studiano retrospettivamente se stessi, e studiandosi descrivono la propria epoca.
Possiamo così tornare, sia pure per brevi cenni, alla vicenda personale di Chiellini. Alla sua carriera. Carriera, si sa, anomala, anche per il tardivo inizio. Disse una volta lui stesso, con autoironia, ma certo anche con un fondo di sincerità, "fino a quarant'anni ho perso tempo a giocare".
Molti commenti sono stati spesi nel tentativo di indagare sugli effetti dell'esperienza in quanto atleta sul successivo impegno in quanto manager. L'esperienza sportiva non va sottovaluta, ma nemmeno sopravvalutata. Per dire dei limiti dei valori di questa formazione, basta ricordare come ci appaia oggi non solo limitante, ma veramente fuorviante, l'epiteto che accompagnò il manager Chiellini negli anni del suo esordio: il nuovo Boniperti. La bonomia, la gestione oculata ma gretta del Boniperti, limitata del resto alla gestione di una squadra sportiva e del suo -ai tempi limitatissimo- indotto, appare una minuzia rispetto alla innovativa, grandiosa visione del business, e del senso stesso dell'impresa, di cui Chiellini è stato prima profeta e poi campione esemplare.
Chiellini, come è a tutti evidente, nasce come manager in discontinuità con la propria esperienza sportiva. Sempre, per fortuna, senza cadere nell'apologia di stesso, Chiellini ci racconta una storia che ci è così nota, tanto da apparirci scontata. Questo è forse il maggior merito di Chiellini: raccontarci una storia che ha i suoi inizi nel Ventesimo Secolo, ma che -se volgiamo lo sguardo attento al nostro non troppo lontano passato- vede il suo punto di svolta verso la metà degli Anni Venti del nostro secolo.
Si tratta, si sa, di un processo di trasformazione globale, il cui studio è come si sa oggi imposto ad ogni studente di management e di organizzazione d'impresa. Ma nessuno più di Chiellini ne è artefice esemplare. A lui infatti si deve la trasformazione di Torino in parco tematico.
Non solo i luoghi destinati ad ospitare eventi sportivi sono ormai musei. La città è spettacolo in sé; il business risiede nel vendere l'archeologia del presente, un presente che sfuma nel mito. Qualcuno, usa ancora la vecchia definizione 'società dello spettacolo', altri, con più ragioni, vedendo con più chiarezza la vera novità, parlano di 'business del nulla'.
Non solo il Lingotto e Mirafiori, ma la restaurata sede dell'Iveco, l'antica sede dalle volte istoriate di Reale Mutua, la Mole Agnelliana. Ed il grattacielo San Paolo genialmente offerto agli sguardi nel suo nudo aspetto di torre sbrecciata ed arrugginita in disuso: luogo di visite a pagamento, ma anche avvertimento civile di fronte all'insensatezza dell'obsolescenza programmata, cifra distintiva, per fortuna per una breve stagione, delle opere edilizie delle archistar.
Di qui il planetario successo di Torino, città museo vivente che fa impallidire, ed apparire retrogrado, polveroso, incapace di moderna grandezza, l'industria turistica di Venezia.
E' lo stesso Chiellini a ricordare come nei suoi primi anni da manager -succube, come tanti di noi, di un fallace spirito del tempo, dichiarava: "la mia passione? La tecnologia!". Poi, si sa, l'ubriacatura digitale giunse al suo fine, prevalse la saggezza, e Chiellini infatti racconta come riscoprì il valore dei muri, degli immobili, degli stessi capannoni - anche se vuoti di manifattura.
Una abituale lettura storica ci ha portato a considerare punto di svolta quel tweet che Elon Musk pubblicò verso il termine degli Anni Venti: "Why get your hands dirty with manufacturing?" Articoli scientifici e divulgativi, saggi e convegni accademici, accumulano commenti su questa disruption. Ma ci appare ora evidente che avevamo bisogno del recente libro di Chiellini per cogliere il senso del passaggio. E per smascherare definitivamente l'ipocrisia di Musk.
Musk o Sir Richard Branson, difficile dimenticare la feroce polemica, finita in tribunale, tra i due imprenditori: Branson in effetti portò prove del fatto che l'affermazione era sua, e che Musk si limitò ad usarla, quando, avendo l'acqua alla gola, si trovò a dover cercare una via di fuga.
Ricordiamo cosa accadde: le sue promesse agli investitori, ribadite nel tempo nonostante l'assenza di risultati manifatturieri, un bel giorno, non furono prese più per buone neanche dalla più spericolata finanza speculativa. Musk si trovò quindi costretto ad affermare la definiva vanità e l'inutilità e vanità della manifattura. Perché mai, dunque, sporcarsi le mani a costruire automobili. Basta sostenere, con i mezzi di propaganda di massa garantiti dell'universale digitalizzazione, che non conta l'automobile costruita, costa solo l'automobile narrata. Alla manifattura su sostituisce lo storytelling. La nuova factory, di cui tanto oggi, a proposito e a sproposito, si parla, è dunque la Fict-Fac, Fiction Factory.
Chiellini ripercorre quindi dal suo punto di vista la storia, fino ad oggi gloriosa, dell'impresa emersa a valle di questo passaggio. Si parla, come è noto, di ESC, Empty Shell Company.
La scatola vuota, prima considerata come deviazione da una sana etica del business, comoda via per l'evasione o l'elusione fiscale, è ora celebrata come impresa ideale e protetta da norme vigenti in ogni paese, norme del resto tutte risalenti al Musk Act, votato, come è noto, dal Parlamento americano nel 2031. In fondo, come ricorda anche Chiellini, il senso della ESC può ancora oggi essere colto nel successivo tweet, pubblicato da Musk quando ebbe la fortuna di trovarsi al di là del guado: "se la narrazione è buona il valore di borsa del titolo sarà buono".
Scopo di questa nota non è tentare di riassumere in poche righe il contenuto di questa importante opera. Semmai lo scopo è invitare a leggere l'opera. Quindi, ci fermiamo qui.
Non senza però aver ribadito la chiave critica proposta da Chiellini. Che può essere, in estrema sintesi, riassunta forse in quattro punti.
Il primo: esiste un sistema finanziario ormai definitivamente slegato dalla manifattura. Tornare indietro è impossibile. Accanirsi in tentativi in questa direzione non sarebbe conveniente.
Il secondo: il vuoto nel quale operano le ESC lascia spazio al pieno, al materiale, al tangibile - dove continua a risiedere valore. Anche quando il pieno è fatto da vecchi muri, magari fabbriche dismesse.
Il terzo: nelle forme d'impresa, come quelle dove operò Chiellini, dedite ad occupare in modo alternativo gli spazi lasciati vuoti dalle ESC è possibile fare business e creare valore tenendo in conto il lavoro umano.
Il quarto: è particolarmente significativo il fatto che Chiellini, esulando dai confini della stretta autobiografia, dedichi un sia pur breve capitolo alle SME, Small and Medium-sized Enterprises. Ripercorrendo con brevi ma efficaci pennellate, Chiellini ripercorre un tratto della storia dell'impresa italiana, ricordando quella stagione in cui -cinquant'anni fa- il futuro della manifattura in Italia sembrava risiedere nell'apertura nel nostro paese di Giga Factory secondo il modello di Elon Musk. Musk non molti anni dopo dichiarò impraticabile il modello, e cambiò rotta. Mentre la lenta politica economica italiana sembra ancora, molti anni dopo, in cerca di Giga Factory.
Chiellini, senza enfasi, come è nel suo stile, invita ad osservare come stia emergendo un virtuoso equilibrio che lega in unico tessuto economico e sociale SME italiane, considerate eccellenze mondiali e città ex industriali coraggiosamente trasformate in parchi tematici.
L'ultimo maglione
Quando ormai l’inopinata conversione era giunta al termine, e non solo il primato nell’automotive era un ricordo, ma ogni macchina a controllo numerico e financo ogni stampante 3 D erano state dismesse, si pensò di sancire la nuova vocazione della città con un’opera monumentale che ne rappresentasse l’essenza - così come Parigi è la Tour Eiffel e New York è la Statua della Libertà.
La simbolica soglia della città non poteva che essere Porta Susa: erano orami giunti al termine i lavori di ristrutturazione della Stazione di Porta Nuova, ora parco tematico dell’Emigrante in cerca di Fabbrica.
Così si aprì il concorso per il progetto, per il quale furono convocati non solo archistar, ma copywriyer e storyteller. Presto fu chiaro che la vera caratteristica distintiva poteva risiedere solo nelle parole del lemma, perché ormai le risorse dell’architettura postmoderna erano state consumate.
Qualsiasi progetto appariva una stanca replica: l’arco della Defense attorcigliato, così come la porta a forma di sorriso della Gioconda. Particolare cura fu quindi posta nella selezione della headline. I membri della giuria -critici d’arte, comunicatori, influencer, user experience designer thinker ed accademici vari- dibatterono a lungo, finché la scelta si ridusse a due emblematici enunciati: The last step of intelligere is play e Lasciate ogni lavoro voi che entrate. Non serve qui ricordare lo svolgersi dell’accanita discussione. Perché mentre ferveva il confronto, una forte pressione dell’amministrazione locale, a quanto pare in violazione dello stesso capitolato della gara, spostò l’attenzione verso una new entry.
Il motivo della svolta era a tutti noto, sebbene non poteva essere detto a chiare lettere. John Linden
il magnate della Mythical Games Inc. proponeva grandi investimenti a sostegno del nascente Porta Susa Digital District. Inizialmente, sempre nel mito di un passato del quale ora resta solo pallido ricordo, si pensò di collocare il Digital District all'ombra della torre di Nino Rosani, nella sede storica del Cselt, dove per anni tecnologi italiani mantennero un primato globale nella ricerca digitale, dalle fibre ottiche allo standard MP3. Ma né Borgo Po né tantomeno la Borgata Vittoria rientravano tra le aree urbane destinate a prioritario sviluppo del flussi di traffico pedonale; e del resto, a Porta Susa, gli enormi spazi sotterranei creati in occasione del nuovo ampliamento della stazione ferroviaria erano occupati solo in minima misura dalle nuove banchine.
Furono questi gli spazi in cui si aprì la World's Largest Arcade. Torino era ormai universalmente riconosciuta come capitale del Tempo Libero, geniale punto d’incontro tra filosofie turistiche diverse: Las Vegas, Disneyland, Venezia. Non poteva mancare, a completamento, il luogo del Computer Game. Certo, lo Stadium, come ogni arena sportiva del globo, aveva un intero piano dedicato agli e-Sports. Ma serviva qualcosa di più universale. Serviva un luogo, o forse meglio: un non luogo più vasto. Una Torino Digitale Sotterranea appunto. Il complessivo successo che garantiva a Torino il primato tra le Città del Divertimento imponeva di pensare in grande. Le città sotterranee di Montreal e Toronto dovevano essere sbaragliate. E si sarebbe trattato di una città interamente dedicata al gioco digitale: sterminati spazi volutamente in penombra, per lasciare che risaltasse agli occhi degli umani in vacanza il bagliore degli schermi invitanti. Questo nelle sale periferiche destinate a neofiti e a digital game addict, perché nelle sale centrali gli schermi erano ovviamente assenti, sostituiti da sempre nuovi device immersivi.
Si spiega così il motivo per cui il monumento di Porta Susa consiste in una statua di John Linden, sopra la quale campeggiano i caratteri cubitali, coloratissimi, visibili nelle stesse foto satellitari, dell’emblematica affermazione che la tradizione attribuisce allo stesso Linden: The Leisure Economy is the embodiment of the hope that someday we could all get paid to play games.
Torino godette in tempi ormai passati di una cultura economica tutta sua. Istituzioni solidamente radicate nel territorio hanno fatto la storia. L'Istituto Bancario San Paolo, erede del Monte di Torino; Reale Mutua. E proprio al termine del 1800, la Società Anonima Fabbrica Italiana di Automobili. Ci volle il coraggio del campione di un management nuovo, senza paura -Marchionne- per buttar via questo inutile vecchiume. Per questo -nonostante sia la statua di John Linden con il joystick in mano ad accogliere le folle di visitatori- non solo oggi, nel 2072, ma da orami lunghi anni, la figura simbolo la cui immagine si associa indissolubilmente la città non è certo John Linden. Tantomeno appare oggi associata all’immagine della città Gianni Agnelli, figura da tempo dimenticata. Né si ricordano John Elkann, l'incolore nipote ed il suo strambo fratello minore. Allo scopo di moltiplicare le icone vendibili della Torino immaginaria, si è tentato di costruire la postuma fama ad un vasto Pantheon di personaggi: il frugale Vittorio Valletta; il roccioso Romiti; l’ingegner Ghidella; il mega presidente galattico Paolo Fresco; Luca Cordero di Montezemolo, frivolo e snob; Giuseppe Morchio, il Perdente. Le loro figurine restano invendute. Così come appare sostanzialmente priva di mercato di massa l’immagine di Giorgio Chiellini, sebbene, come è noto, a lui si debba la fortuna della città.
Era entrato nel maggio 2003 nel consiglio di amministrazione del Gruppo Fiat. Dal primo giugno 2004 fu Amministratore Delegato del gruppo FIAT. Nel febbraio del 2005 ottenne la testa dell’ingegnere austriaco Herbert Demel e lo sostituì come Amministratore Delegato della Fiat Auto. Così Marchionne inizia la luminosa ascesa dell'Uomo Solo Al Comando interrotta solo dalla prematura morte.
Chiellini, calciatore ventunenne, giunse invece alla Juventus nell’estate del 2005. Terminata l'attività di atleta nel giugno 2023, iniziò allora, tardivamente, a quarant'anni, la carriera di manager. L'opera di Marchionne era in quegli anni già compiuta: la Fiat si era dissolta nel cielo della Stellantis. Torino era saldamente incamminata verso la deindustrializzazione.
Le deleghe di Chiellini, inizialmente, non oltrepassavano i confini del calcio. Si manifestò però subito il suo peculiare stile di guida. Nessun presenzialismo, nessun accentramento di potere, nessun clamoroso annuncio, nessun roboante piano industriale, nessuna promessa-capestro alla comunità finanziaria, nessun road show. Solo un cavalcare l'onda, una gestione del giorno dopo giorno.
Il giro d'affari della Juventus era comunque modesto. E il business calcistico restava condizionato da una fastidiosa variabile esterna: i risultati sportivi. Eppure, era questa l'unica area di attività imprenditoriale in cui erano impegnate società delle quali la Grande Famiglia deteneva quote di maggioranza. Chiellini si ritrovò quindi, per inerzia, senza precisa volontà o forse anche senza consapevolezza, ad allargare il raggio d'azione. Dallo stadio agli investimenti immobiliari. Dal calcio al vasto terreno dell'industria del tempo libero e del turismo. Si aprivano insomma in quegli anni i nuovi mercati della Leisure Economy e della Gamification dell'intera vita umana. Torino allora si mostrò il luogo ideale. Nel vuoto creato da Marchionne, lo spazio per nuove iniziative, per una offerta via via allargata di servizi per il tempo libero, era enorme.
Chiellini, con il suo consueto understatement, passo dopo passo, senza apparire, seppe trarne profitto.
Qualcuno ha scritto che, è il Kutuzov dei tempi postmoderni. Kutuzov, come raccontato da Tolstoj nelle Guerra e Pace, è il generale chiamato come ultima disperata risorsa a comandare le armate russe di fronte all'invasione napoleonica. Kutuzov, da sempre poco incline alle arditezze strategiche, ha ormai oltre sessant'anni anni, i capelli bianchi, un corpo pesante, si addormenta in pubblico, si esprime in modo quasi incomprensibile. Eppure è un leader vincente.
Se questo è Chiellini, Marchionne è Napoleone. Si celebrano le sue fulminee campagne. Se alcune di esse sono fallite, hanno comunque contribuito all'imperitura fama. La scalata al vertice della Fiat. La Chiusura dei Conti con la General Motors e la Chiusura delle Fabbriche. La conquista della Chrysler, strappata con blandizie dalle mani di Obama. La campagna per la Opel. La Vendita della Ferrari. La campagna contro la CGIL. La distruzione della Fiat. L'affermazione del marchio Jeep a scapito di ogni altro.
Accade così di fatto che se il reale artefice del successo è Chiellini, la figura archetipica con la quale si identifica l'immagine di Torino è stata, è e sempre più sarà una sola: il manager per eccellenza, Marchionne. Restano infatti legati al suo nome, alla sua iconica immagine -con grande dispetto di Chiellini, si dice- i business più profittevoli. Business che sono anzi in costante crescita.
Non è la Mole Agnelliana ad attrarre il maggior numero di visitatori, né l’ultima fabbrica a luci spente di Mirafiori, ma l’Ufficio di Marchionne. Così: Ufficio di Marchionne, come si sa, è stata ribattezzata la storica palazzina del Lingotto, più volte ampliata per ospitare nuove sale: l’annesso Ufficio della Segretaria; la sala della Conversazione Amichevole con Bentivogli; la sala dove l’ologramma in maglione recita in continuo il Discorso di Pomigliano; la biblioteca dove sono conservate le copie originali dei diversi Piani Industriali. Restano comunque tra le più visitate le trentanove sale dedicate ai principali Road Show, in ognuna delle quali grandi display LED mostrano le tappe, le piazze finanziarie visitate, gli investitori istituzionali conquistati. E la sala della Remunerazione Globale di Marchionne, dove i visitatori, attraverso appositi spreadsheet, possono simulare l’andamento della trionfale ascesa della remunerazione globale, sommando alla cash compensation le quote azionarie e le stock option - fino ai gloriosi 54 milioni di dollari nell’anno l'anno della scomparsa.
Singolare e significativa appare la fama di Marchionne presso il largo pubblico, anche presso gli abitanti delle più remote lande del pianeta. Anzi, come è stato detto, più che semplice fama, clamoroso, in buona misura non spiegato, caso di worship-hero postmoderna.
Basta qui ricordare la serie televisiva a cartoni animati Disney Plus Invasion of the sweater-wearers - titolo forse impropriamente tradotto in italiano L'invasione degli ultramaglioni. La serie, notoriamente rivolta ai paesi in via di sviluppo, non solo finanziata, ma anche co-prodotta dalla Global Managers Foundation, mostra le gesta dei salvatori: i Markjonnes, supereroi replicanti contraddistinti dall’inconfondibile maglione- che giungono da un lontano pianeta per guidare il paese verso una futura felicità, Felicità che consiste nel messaggio ribadito in ogni episodio: abbiate fiducia nella Trasformazione Digitale, affidatevi alla guida di noi, i Markjonnes.
Accade così che, lanciata dalla serie televisiva, si sia affermata una nuova tradizione. Nei paesi divenuti indipendenti con la decolonizzazione seguita alla seconda guerra mondiale, era consuetudine che ad apertura delle giornate scolastiche, anche nei più sperduti villaggi, i bambini, rivolgendo lo sguardo alla mensola dove in un angolo è esposta una piccola bandiera della patria, cantassero in coro l’inno nazionale. Ora, ai tempi della globalizzazione, serve un altro evento simbolico: mentre un altoparlante diffonde le note del jingle di Invasion of the sweater-wearers, i bambini sono invitati ad aprire sul proprio smartphone l’apposita app, per procedere, ognuno guardando il proprio schermo, allo studio dell’andamento dei titoli in Borsa.
Sebbene il fatturato delle vendite del libro si collochino a siderale distanza dal fatturato del maglione, un piccolo saggio è di gran lunga il best seller in ogni punto di vendita torinese:
Il piacere del divano. I nuovi eroi del Webfare. Il fin troppo esplicito titolo apposto dai solerti editor di Feltrinelli alle poche pagine postume di Maurizio Ferraris non lascia margini di equivoco. Qui il messaggio, spogliato di ogni velo lessicale conseguente alla lezione di Heidegger, Deleuze, Derrida e Toni Negri, appare con icastica chiarezza. L'istruzione di base di cui gode ormai ogni cittadino del pianeta non ha lo scopo di formare al lavoro -che non c'è, e che anzi non può e non deve esserci. L'istruzione di base prepara a godere del Tempo Libero.
Il transito già evidente nel secolo scorso, in atto nella prima metà del secolo, è ormai giunto a compimento. L'agere deve essere lasciato alle macchine; agli esseri umani resta l'intelligere. Al lavoro materiale si sostituisce il lavoro immateriale. Ferraris mostra come intelligere e lavoro immateriale finiscono per consistere nell'interazione con piattaforme di cui non si conosce lo scopo. Si tratta quindi di un gioco.
Ferraris considerava il Webfare -la remunerazione offerta ad ogni cittadino in cambio della sua vita sulle piattaforme- una speranza o una utopia. Ma come si è visto le Grandi Case digitali, Google, Meta, Tencent, Baidu ed ogni altra, concorsero volentieri a coprire i costi del salario digitale universale. Ed anzi, inaspettatamente, fecero di più. Si sa dei viaggi a Torino gratuiti, all inclusive, offerti non solo dalla multinazionale di Linden, ma da Google, Meta, Tencent, Baidu. Torino come luogo, o non luogo, dove si consolida l’esperienza del non-lavoro. Torino come premio per le ore passate, a casa propria o dovunque, a donare dati alle Grandi Case Digitali.
Così per tutti il Grand Tour a Torino è il rito di passaggio. Per chi ancora lavorava, e giunge finalmente all'agognato momento delle Grandi Dimissioni. E per chi non ha mai lavorato, ed ha nel viaggio l'occasione per muoversi almeno per una volta lontano da casa, nella città ideale dei Markjonnes: non a caso il Viaggio a Torino è il premio promesso ad ogni bravo bambino in Invasion of the sweater-wearers.
Così, per ogni cittadino del pianeta, Torino appare oggi nei fatti l'inveramento della speranza di poter essere pagati per giocare. Ma di giocare, almeno per una volta, alzandosi dal divano e recandosi di persona nella Nuova Capitale del Gioco.
Yes to MBA: A Campaign to Promote Quality Education for All Manager. Così recita il titolo dell'iniziativa promossa dall'UNESCO con il sostegno dell'independent nonprofit Generation, fondata da McKinsey. Se le moltitudini vivono sul divano di casa, sempre più cruciale diviene di ruolo dei Tecnici del Governo, i Manager.
Ancora oggi, nel giorno di chiusura di ogni Master in Business Administration che si rispetti, la tradizione varia solo nei dettagli. A Cambridge, Ma., alla Columbia Business School o a Wharton, a Londra, a Hong Kong o a Parigi, all'Instituto de Empresa di Madrid così come all'ESADE di Barcellona, alla Bocconi e al MIP, all'INSEAD, i partecipanti tutti indossano il Marchionne's sweater. Quasi sempre nella classica versione blu. Solo alla MIT Sloan Business School e a Stanford, a quanto pare, si preferisce un colore più cool: il canna di fucile - colore che, si sostiene, appare più consono alla cultura high tech.
Come da tradizione, i partecipanti scendono dai loro posti nell'aula anfiteatro, si riuniscono attorno alla cattedra per la foto ricordo, con in mano il diploma. Ed allora, come rito di passaggio, inscenano un haka in vista della partita di rugby -la loro nuova carriera di manager laureati- che sta per iniziare. Gridano in coro, in italiano: “Vivo nell'epoca dopo Cristo! Tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa!”.
E poi, ancora, al termine della cerimonia di consegna del certificato, un altro momento simbolico resta vivo nelle consuetudini di ogni MBA: viene premiato dai neodiplomati il docente che ha riscosso il maggior gradimento: riuniti in cerchio, i neomanager gettano verso il cielo il loro preferito. Anche qui, come si sa, Marchionne è la figura simbolo: il premiato indossa il dono, che è un maglione, con scritto “Marchionne for a day”.
Strategie di marketing o product management, questo il dilemma. Il maglione di Marchionne resta oggetto di una querelle che coinvolge manager di ogni specializzazione, analisti finanziari e studiosi dei consumi di massa.
Molti osservatori sostengono che -in una era dove la convenience generatrice di valore non può che essere digitale- il maglione debba essere considerato una mera commodity. Potrebbe dunque, secondo alcuni, essere regalato ad ogni visitatore, al suo arrivo a Porta Susa. Secondo altri andrebbe tentata ancora, nonostante gli scarsi risultati di business fino ad ora raggiunti, la via del digital clothing: nuovi prototipi del maglione servitizzato -trasformato, tramite sensori e connessione IoT, in propagatore della linea di comando aziendale- sono allo studio. Qualcuno però controbatte ricordando che se Marchionne fu campione del servilismo nei confronti del padrone, fu anche sempre poco propenso a seguire la via della Trasformazione Digitale, nella quale intravedeva una perdita di potere; sarebbe quindi, si dice, un sberleffo alla memoria digitalizzare l'inconfondibile girocollo.
Intanto i più si attengono ai dati e agli immediati risultati di conto economico, e plaudono al ritorno della old economy: non solo nella palazzina, mai nei grandi shop della Mole Agnelliana e di Mirafiori, ed anche nel nuovo centro commerciale del Laboratorio World Class, l'articolo di gran lunga più venduto è il maglione.
Un eterno tema del marketing torna di attualità: la cannibalizzazione. La pila dei maglioni, in ogni punto vendita, è troppo alta. Il prodotto supervenduto, a perenne rischio di rottura di stock, rende particolarmente difficile alimentare i negozi con una gamma di offerta sufficientemente vasta. Advertising e nudge via Social Network non riescono a far decollare le vendite né del bastone di Gianni Agnelli, né del bastone di Lapo. Né le vendite del modellino dell'ultima Ferrari, né le vendite del modellino dell'ennesima Cinquecento riescono lontanamente a competere con lo smercio crescente del frugale capo d'abbigliamento.
Del resto nemmeno altri articoli legati alle gesta di Marchionne godono di gradimento: i magazzini restano pieni delle penne, fedeli riproduzioni dello strumento con il quale egli, nella notte, sotterraneo di Manhattan, mise fine alla trattativa e firmò l'epico accordo con la General Motors.
Fiorisce così la letteratura sul caso: da speculazioni econometriche fondate sulla pecking order theory a interpretazioni psicanalitiche, che intendono il maglione come esemplare oggetto transizionale.
Per altri ancora, la spiegazione della fama universale dell'indumento è metaforica. Il senso profondo, sintetico, dell'agire nuovo di Marchionne, si ricorda, sta nell'estrazione di valore. Spremere il limone dell'economia manifatturiera per estrarne, esercizio dopo esercizio, sempre nuova ricchezza, destinata ad essere investita nei ricchi pascoli della speculazione finanziaria. Il maglione, si dice, è il simbolo di questa estrazione. La pila di maglioni mostra come sottrarre valore ad ogni altro prodotto. Il maglione è il distintivo indumento indossato da coloro che si riconoscono nel ruolo di estrattori di valore.
A Empty Shell
I fasci laser che bucano il cielo della città dello spettacolo. Le masse sciamanti fuori dal gate dell'aeroporto. Le pallide luci degli schermi sempre accesi che illuminano i salotti di casa. La quotidianità scandita dalle notifiche dello smartphone. L'accanirsi iperattivo di un manager, e la strategia dell'attesa di un altro. Le stramberie narcisistiche celebrate come colpi di genio. Gli atti di governo sostituiti da post su un Social Network. L'intelligenza artificiale come panacea. Il salario sociale come panacea. Il lavoro, quando c'è, senza senso. Il lavoro sottopagato. Il lavoro inteso solo come fatica. La simulazione al posto della vita vissuta. Il gioco, retto da regole, sostituto di una realtà complessa, ignorata. Il culto dell'eroe come alternativa al conoscere sé stessi.
Il non guardarsi più negli occhi e il comunicare invece attraverso strati di codice digitale. Il non camminare più nell'erba, tra i sassi, in montagna o sulla riva del mare. Il non distinguere più un albero, un fiore, dalla sua imitazione computazionale. L'osservare un'opera d'arte seguendo quanto scritto in un libretto di istruzioni. Il sostenere che l'ultima parola umana è stata pronunciata - e che la parola è ormai passata alla macchina. Il sostenere che nuovissime macchine fanno parte sella società, alla pari di noi umani. Il dire che il destino è ormai segnato, che non c'è alternativa. Il considerare il denaro come unico metro del valore. L'accettare il divario crescente tra ricchezza e povertà senza più scandalizzarsi. Il tenere lontana da noi la fatica del pensare. Il non provare più pena per la natura che muore. L'affidarsi alla macchina. Il provare piacere per l'altrui arroganza del potere. Il sostituire una versione pop ad ogni cosa seria. Il non vedere più l'altro, il non accettare differenze. Il trasformare le differenze in lobby, in difesa di interessi. Lo sbeffeggiare chi cerca democrazia e discussione in pubblico.
Il gesto imitativo dell'indossare l'indumento simbolo di potere e di successo. Fino al punto in cui il possesso dell'indumento sostituisce la ricerca dell'essere. L'involucro al posto del corpo e dello spirito.
Tutto si riassume nell'immagine dei maglioni impilati sui banconi, non solo sugli scaffali dello shop. Maglioni come gusci vuoti. Gusci vuoti.
Nota
Una prima versione del testo che appare qui come paragrafo intitolato Fino a quarant'anni ho perso tempo a giocare era apparsa in precedenza con il titolo "L’anomala carriera di un manager italiano del futuro. Come (forse) saremo tra cinquant’anni” sulla rivista Sviluppo & Organizzazione, 300, luglio-agosto 2021.
Una prima versione del testo che appare qui come paragrafo L'ultimo maglione era apparsa con lo stesso titolo come capitolo nel libro. Francesco Varanini, Marchionne non è il migliore dei manager possibili, Guerini e Associati, 2022.
1Giorgio Chiellini, Because Marchionne isn't the best of all possible managers, Doubleday, New York, 2071.
2Alfred P. Sloan, My Years with General Motors, Doubleday, New York, 1964.