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Il tempo è il filo conduttore che lega la nostra esistenza al cambiamento. Viviamo in un’epoca in cui il presente si accorcia e il futuro si affretta a diventare obsoleto. Questo ritmo incessante, scandito dalle innovazioni e dalle urgenze, ci costringe a riconsiderare il nostro rapporto con il tempo e i valori che lo definiscono. L’urgenza appartiene al dominio del fare, del “quando”, mentre l’importanza risiede nell’essere, in ciò che attribuiamo significato. Tuttavia, il confine tra questi due mondi si è fatto labile, spingendoci verso decisioni affrettate che raramente rispettano ciò che conta davvero.


Nel mondo contemporaneo, il nuovo di oggi diventa inevitabilmente il vecchio di domani. Eraclito lo aveva detto duemilacinquecento anni fa: tutto scorre, “panta rei”. Viviamo in un ciclo continuo di innovazione e obsolescenza, dove il passato viene dimenticato prima di essere compreso, e il futuro diventa un presente effimero. Ma cosa significa questo per il nostro rapporto con il tempo e per le strutture che plasmano la nostra vita?

La gestione del tempo è centrale nelle società contemporanee. Le aziende, consapevoli della nostra difficoltà a gestire l’orizzonte temporale, cercano di dominarlo. Creano un presente scandito, un ciclo di novità che ci tiene ancorati a un eterno “ora”.

Questo “ora” però può essere problematico: se troppo breve, porta a un’inflazione del nuovo, con un’accelerazione che svuota di significato ogni innovazione. Se troppo lungo, genera deflazione, un’attesa che blocca il cambiamento. Qui emerge una tensione filosofica: quanto del nostro tempo è davvero nostro? E quanto è dettato da logiche esterne?

Questa domanda si intreccia con una distinzione fondamentale: quella tra urgente e importante. L’urgenza appartiene alla logica del tempo: è una chiamata all’azione immediata. L’importanza, invece, appartiene al regno dei valori: ci parla di ciò che conta nel lungo termine. Tuttavia, il mondo contemporaneo confonde le due dimensioni. Come osservava Hannah Arendt, l’agire autentico si perde quando siamo intrappolati in una routine che privilegia il fare a scapito del pensare. È possibile riscoprire un equilibrio che ci consenta di orientare il nostro tempo verso ciò che ha realmente significato?

Un altro elemento che ci aiuta a comprendere la nostra condizione è la scoperta dei neuroni specchio. Questi meccanismi cerebrali, descritti dalla neuroscienza contemporanea, sembrano confermare una verità intuita da filosofi come Aristotele: l’uomo è un “animale sociale”. La nostra capacità di risuonare con gli altri, di comprendere le loro emozioni e azioni, è alla base della comunità e della cultura.

Ma cosa succede quando questa capacità viene compressa in una realtà dominata da urgenze artificiali e relazioni mediate dalla tecnologia? Rischiamo di perdere l’empatia, di diventare automi che si relazionano senza mai incontrarsi davvero?

La riflessione non può ignorare l’aspetto etico. Come ci ricorda Daniel Kahneman, la mente umana è vulnerabile a bias cognitivi, errori sistematici che deformano la nostra percezione. Questo ci obbliga a una responsabilità morale: essere consapevoli dei nostri limiti e imparare a riflettere prima di agire. Heidegger, in “Essere e tempo”, descrive il rapporto con il futuro come una costante tensione tra l’autenticità e l’alienazione. Forse, il primo passo per riconquistare il nostro tempo è accettare questa tensione come parte della condizione umana.

Infine, non possiamo ignorare il ruolo della nostalgia. Spesso considerata una debolezza, essa è invece un ponte tra passato e presente. Come scriveva Proust, ricordare significa vivere due volte. La nostalgia può aiutarci a riconnetterci con ciò che abbiamo perso, trasformandola in uno strumento di conoscenza. In un mondo che ci chiede di correre, forse il più grande atto di ribellione è fermarsi e guardarsi indietro.

In conclusione, siamo immersi in un flusso che ci sfida a ridefinire continuamente il nostro rapporto con il tempo, il cambiamento e gli altri. Ma questa non è una condanna: è un’opportunità per riscoprire la nostra umanità. Forse, come sosteneva Kierkegaard, il compito della vita non è risolvere i paradossi, ma viverli.

Sta a noi decidere se vogliamo essere spettatori passivi di questo flusso o protagonisti consapevoli della nostra storia.

Bibliografia

Arendt, H. (1958). Vita activa. La condizione umana. Bompiani.

Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Longanesi.

Kahneman, D. (2011). Pensieri lenti e veloci. Mondadori.

Proust, M. (1913-1927). Alla ricerca del tempo perduto. Einaudi.

Kierkegaard, S. (1843). Timore e tremore. Feltrinelli.

Mazzucchelli, C. (2021). Tecnoconsapevolezza e libertà di scelta. Delos Digital.

Varanini, F. (2015). Macchine per pensare. L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi. Guerini e Associati.

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Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / “omnia mea mecum porto”: il vero valore risiede nell’esperienza e nella conoscenza che portiamo con noi