La concezione moderna della salute, soprattutto nel mondo occidentale, sta sempre più tracimando dal “diritto alla salute” al “dovere di star bene” (e quindi di mostrarsi “in forma”): da qui l’assioma che vede quasi crescere l’attività di «medicalizzazione della vita quotidiana» (Antonio Maturo – Peter Conrad: “La medicalizzazione della vita” - Milano, 2009), e cioè il processo mediante il quale tutte le esperienze umane vengono definite, vissute e trattate come se fossero un problema medico; la vita dell’individuo rappresenta quindi un aspetto della realtà in cui le condizioni umane vengono riconosciute sotto un profilo sociale di adeguatezza, a tal punto che tutto ciò che si discosta dalla “normalità” sia conseguentemente sottoponibile a cure mediche (anche se solo a fini estetici, per esempio in nome di una negazione dello stesso naturale invecchiamento, esso stesso considerato un male) o psichiche (laddove appaia evidente una “deviazione” rispetto agli assetti del normale ordine sociale o dei normali rapporti personali fra gli individui).
In particolare, l’obiettivo dell’attività medica si riduce così alla semplice guarigione in caso di evidenza di un malanno; compito del medico è «ricondurre alla norma una funzione o un organismo che se ne sono allontanati» (Georges Canguilhem: “Il normale ed il patologico” – Parigi, 1966; trad. it Torino, 1998). La normalità del corpo è individuata dalla fisiologia, quale branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi e il modo in cui si mantiene la stabilità interna dei corpi, facendo figurare come “normale” lo stato degli organi in cui questi ultimi svolgono le loro funzioni secondo una norma empiricamente confermata: il normale è ciò che viene più frequentemente osservato.
La ricerca del male e la guarigione dalle malattie in molti Paesi ricchi, come gli Stati Uniti, finiscono pertanto col coincidere con un controllo della persona affinché la sua salute porti non solo alla conservazione o al ripristino della sua normalità biologica, ma anche alla sua efficienza produttiva e consumistica; il paradosso è che alcune condizioni una volta considerate normali finiscono adesso con l’essere annoverate fra i rischi per la salute o addirittura in conclamate patologie da attenzionare e curare, sia che si tratti di disturbi mentali, come ansia, depressione, disturbo bipolare, ecc., sia che si tratti di malattie del corpo diagnosticate semplicemente come problemi potenziali: non si tratta solamente di un cambio di prospettiva nel senso conclamato di una medicina “preventiva”, dato che per esempio i livelli al di sopra dei quali le persone vengono diagnosticate a rischio di ipertensione e colesterolo sono stati nel tempo abbassati e per questo aumentano i “pre-malati” in nome di una medicina che non mira solamente alla prevenzione e a precedere la cura, ma che tende all’ottimizzazione delle condizioni di salute per offrire alla società nel suo complesso quel benessere che si caratterizza in una “normalità” dei processi produttivi (a cui tutti devono partecipare) e in una “normalità” dei consumi (a cui tutti sono chiamati per incrementare annualmente il PIL).
In questo contesto socio-culturale, la possibilità di intervenire non solo con esami diagnostici sempre più attenti e sofisticati ma anche con indagini genetiche contribuisce a «offuscare i confini tra normale e patologico» (ibidem). Si va alla ricerca del male prima che questo si manifesti, temendone la nascita, ma non solo in favore della persona (per non farla ammalare), ma in favore della società nel suo complesso (per favorirne la crescita economica, renderla più efficiente ed evitare sovra-costi per il welfare).
Un diverso approccio è sempre possibile
Un diverso approccio è sempre possibile: è il pensiero di Marc Augé che individua nell’analisi della malattia e delle sue manifestazioni una opportunità per approfondire la relazione simbolica tra l’individuo e il suo gruppo sociale, dato che il male si concretizza nelle singole malattie e ogni malattia, a suo dire, costituisce tra gli eventi individuali quello più connotato socialmente.
Secondo Augé «l’ipotesi è che ordine sociale e ordine biologico siano governati dalla stessa logica, che esista, in una società data, una sola griglia di interpretazione del mondo applicabile sia al corpo individuale che alle istituzioni sociali. Più esattamente, che se esiste una logica, è da essa che dipendono contemporaneamente la costituzione del corpo e le istituzioni del sociale» (“Il senso del male - Antropologia, storia e sociologia della malattia” (con Claudine Herzlich) – Parigi, 1984; trad. it. Milano, 1986). D’altronde, può esistere una società all’interno della quale il male o le sue espressioni, piuttosto che gli individui colpiti da una malattia, non acquistino una dimensione “sociale” travalicando il lato personale, individuale, intimo?
In questi termini e in questa logica il concetto e il senso del male, ricondotto all’evidenziarsi dell’evento malattia (evento individuale e insieme sociale), vengono piegati alle logiche dell’ordine dell’immaginario sociale. La malattia, come evento elementare, viene inoltre connessa a vincoli simbolici inerenti a schemi interpretativi che, organizzati anteriormente all’evento, ne costituiscono il presupposto per dargli un posto nel mondo e determinarne gli orizzonti di senso. Perfino il rito sembra servire proprio a questo scopo: come afferma sempre Augé, «l’apparato rituale delle religioni sembra sia chiamato più a comprendere e orientare l’evento che a costituire una mediazione del senso della vita; questa può trasparire indirettamente agli occhi dell’osservatore che studia le costanti e le dominanti del sistema rituale: ma non ne costituisce l’oggetto primario».
L’antropologia medica e della salute, branca di una disciplina che in Italia sembra muovere in alcuni contesti ancora i primi passi, ma che invece è già abbastanza diffusa, guarderà agli effetti del decorso di una terapia piuttosto che al semplice raggiungimento del benessere fisico. Diverso è il modello di approccio verso il male, altrettanto diversi sono i modelli di approccio verso la terapia e verso l’obiettivo della “guarigione”.
Le componenti culturali, che contribuiscono a dare senso alla salute e alla malattia di un gruppo sociale o di un individuo, differiscono d’altronde da una cultura all’altra e talvolta anche all’interno di uno stesso contesto geografico, fra “culture egemoni” e “culture subalterne” (è d’obbligo in questo contesto il richiamo al fondamentale testo di Alberto Maria Cirese “Culture egemoniche e culture subalterne” - Palermo, 1973).
Differisce il modo in cui il corpo fisico e/o psichico di un individuo viene percepito e curato, ma questa differenziazione sarà fortemente influenzata dal corpo sociale in cui l’individuo si iscrive. Nonostante la malattia sia una componente con carattere universale, le idee attorno alle pratiche per la salute mutano e le rappresentazioni di questa nelle varie culture sono differenti, come differenti sono le figure “professionali” incaricate della guarigione. «Riconoscersi malato o riconoscere una malattia sono fattori strettamente condizionati dal sistema culturale di riferimento», come giustamente afferma Claudia Luongo (“La malattia come fattore socio-culturale” – Bologna, 2017).
Osservando le differenze culturali
Una conferma di tutto ciò ci viene dall’osservazione delle differenze culturali, per esempio nell’ambito delle cure necessarie da una persona che vive nel “nostro mondo” ma proviene da un’altra realtà socio-culturale, come accade per gli immigrati già residenti nel nostro territorio o, ancor di più, per i migranti che vivono quanto meno tre importanti traumi: il primo è quello legato al volere/dovere lasciare la propria terra d’origine per motivi economici, a causa di guerre e conflitti o per motivi legati alla drammaticità di eventi climatici; il secondo è quello di dover affrontare un viaggio complesso che di certo non è esso stesso scevro di pericoli, sia se ci si affida a una carretta del mare, sia che si vada dietro a mercanti di uomini che guidano gruppi eterogenei per centinaia di chilometri lungo sentieri dove la natura e gli stessi uomini sono pronti a inghiottire spesso ogni speranza; il terzo è quello dell’arrivo, sempre che tutto vada bene, allorquando molto spesso le speranze della vigilia, alimentate artatamente dai mercanti di uomini, si scontrano con una realtà assai più dura e complessa per via della burocrazia, delle leggi di accoglienza o di respingimento, della capacità di adattarsi a una cultura del tutto diversa, con proprie norme, una diversa lingua, e tutto un mondo di regole e prassi di vita sconosciute.
Anche superando tutte queste difficoltà, e quindi anche nel caso del raggiungimento di un equilibrio di vita da parte del migrante che in qualche modo dopo alcuni anni riesce a integrarsi nella nuova realtà, il sopraggiungere di una malattia innesta subito una percezione ben più grave fra il senso che egli riesce a dare al suo male e la sua stessa richiesta di cura nel momento in cui all’improvviso si trova a dover essere accudito dal nostro sistema sanitario. Il trauma, l’ennesimo trauma, che ne deriva va considerato sotto vari aspetti: prima di tutto proprio da un punto di vista culturale, spiegando le differenze delle condizioni di salute sulla base dei comportamenti influenzati dalla differenza dei rispettivi modelli culturali che stanno alla base dei sistemi sanitari (il nostro e il loro); quindi da un punto di vista socio-economico, in cui si individuano le cause del disagio nei comportamenti individuali e collettivi generati dalle altre socio-culture; ma anche da un punto di vista introitante che tende a far sì, acriticamente, che gli immigrati vengano pensati e rimodellati come soggetti nuovi da inserire nel sistema sanitario occidentale come se questo fosse “ovvio”, direi “naturale”, cosa che invece non è.
In concreto, i sentimenti e i sintomi descritti dai migranti quando si presentano in un ospedale o davanti a qualche operatore sanitario, al di là delle difficoltà linguistiche che ostacolano la comprensione reciproca, sono spesso ambivalenti: l’avventura della migrazione si costituisce di dubbi e incertezze che accrescono il senso (oggettivo) del dolore, della malattia; è un trauma la stessa migrazione, il sentirsi strappato dalla propria terra, dalle proprie origini, dalla propria storia culturale, spesso anche dai propri affetti, che si aggiunge a un altro, magari consolidatosi nel tempo, determinando una condizione di fragilità ulteriore che acuisce per questi soggetti il senso del male.
Non è un caso se fra i migranti ci sia una porzione elevata di soggetti che soffrono di malattie psichiche o psicosomatiche legate allo “stress da transculturazione”, cioè a quella situazione di pressione psicologica a cui l’individuo estraneo al mondo in cui vive (anche se è stato il mondo da lui in qualche modo scelto emigrando) è sottoposto dopo che abbandona la sua terra, spesso anche la sua famiglia e sicuramente la sua cultura. A questo stress si aggiungono poi nella quasi totalità dei casi la fragilità economica, le cattive condizioni abitative e l’emarginazione sociale a cui è sottoposto dalla comunità “accogliente”. Il male dell’immigrato è quindi, prima di tutto, spesso “il male dell’immigrazione” dovuto alla sua abituale esclusione sociale, dettata dalla precarietà materiale derivante a sua volta dalla povertà economica e relazionale, che contribuiscono a determinare a loro volta un più ampio e complesso processo di emarginazione. Ogni malattia, anche banale, sorta in questo contesto diventa un male ben più grave da affrontare rispetto a un nativo o a un residente da generazioni.
La necessità di un approccio diverso, tipico della “medicina delle migrazioni”, ha quindi lo scopo di mettere in una prospettiva di salute transculturale la richiesta di aiuto di coloro che manifestano culture diverse dalla nostra, richiedendo una capacità di interazione tra il sapere scientifico e la dimensione sociale entro cui si sviluppa la percezione della loro malattia. Sempre secondo la Luongo, «adattamento, disadattamento, alienazione e anomia rappresentano diversi livelli sociali che conducono alla compromissione della salute». Diversamente dai residenti, spesso è anche il diverso status giuridico dei migranti il primo ostacolo che questi devono superare per affermarsi nella società in quanto “soggetti” e non “oggetti”; questa situazione espone la loro psiche a ciò che viene definito come “patologia della transizione” (Alfredo Ancora: “I costruttori di trappole del vento - Formazione, pensiero, cura in psichiatria transculturale” - Milano, 2006), cioè a forme di sofferenza che prendono vita a seguito di shock culturali o alle cosiddette “sindromi di sradicamento”.
L’incertezza del loro essere può provocare gravi disturbi di identità e favorisce la nascita di ulteriori sindromi e manifestazioni di disagio in cui la dimensione medico-corporea e quella psicopatologica appaiono fra loro interagenti in modo inestricabile tanto da far sì che il corpo veicoli chiaramente, insieme al malessere fisico, anche un disturbo psichico. Nel contempo, le differenze culturali nell’espressione dei sintomi pongono le basi per mettere spesso in crisi il modello occidentale di interpretazione dei sintomi e di elaborazione di una terapia, dato che il nostro modello sanitario si fonda nella razionalità clinica e interpreta i sintomi come manifestazioni di una sottostante realtà biologica. Riconoscere la rilevanza clinica degli aspetti culturali e sociali nella vita di ogni paziente è fondamentale perché restituisce non solo la semantica della malattia ma soprattutto la sua dimensione interpretativa (sull’argomento si rimanda, in particolare, a Guido Giarelli: “Storie di cura: medicina narrativa e medicina delle evidenze: l'integrazione possibile” - Milano, 2005).
Sempre in tema di medicina delle migrazioni, va aggiunto che il momento della narrazione da parte del paziente, e quindi della trasformazione di segni di disagio in sintomi, è un processo mediato culturalmente; quindi nel corso dell’incontro terapeutico è immaginabile che il linguaggio sintomatologico del paziente non possa (e non debba) essere affrontato solo attraverso una banale traduzione linguistica, ma all’interno di un sistema simbolico culturale differente, nel quale per esempio il riferimento a organi del corpo (come cuore, cervello, stomaco o fegato) possono essere simboli culturalmente codificati che esprimono esperienze sociali diverse da quelle a cui noi siamo abituati (e a cui il sanitario occidentale è abituato). E pertanto «riconoscere la differente prospettiva del paziente vuol dire riconoscere la natura culturale delle pratiche biomediche, le quali operano un processo di selezione che rischia spesso di offuscare delle dimensioni che potrebbero essere fondamentali nel processo diagnostico-terapeutico» (Ivo Quaranta – Mario Ricca: “Malati fuori luogo: medicina interculturale” - Milano, 2012).
L’attività diagnostica non deve basarsi quindi solo sulla spiegazione del sintomo tramite le parole, ma deve rappresentare un’opera di ricostruzione del mondo della vita del paziente, restituendo senso alla sua personale esperienza del suo dolore, così solo destrutturando il suo senso del male. Né ci si può dimenticare che mai come nel dolore l’uomo è in grado di accorgersi della falsità delle parole di conforto dette da chi gli sta accanto, laddove ci si fermi a una formale presenza e non vi sia anche autentica partecipazione: anzi, proprio in questi casi il malato scopre di essere solo col suo male, amplificandone gli effetti. Ovviamente questo vale in tutte le situazioni, di certo non solo per i pazienti di altre culture: basti pensare ai lungodegenti, ai portatori di gravi handicap, ai malati terminali, ecc.
Il ruolo dell'antropologo
L’antropologo può essere ormai chiamato ad affrontare la complessità dei processi politico-culturali che coinvolgono i corpi e le istituzioni sanitarie, il rapporto fra individuo e operatore sanitario (medico, infermiere, ausiliario), ma anche le relazioni fra salute degli individui e dei gruppi sociali e diseguaglianze, senza tralasciare, come già evidenziato, i processi terapeutici e le strategie di cura, che ovviamente possono diventare attività o forme ostili di relazione nei confronti di persone che non accettano le metodologie abituali della nostra medicina o il rapporto medico-paziente promiscuo. Il classico esempio è quello delle donne di cultura islamica che non accettano, se non costrette, la presenza accanto a loro di medici e infermieri maschi: l’antropologo collabora col personale medico e sanitario in questi casi per renderli consapevoli del grande valore attribuito dai musulmani al pudore fisico, che comunque spinge non solo le donne ma anche gli uomini a non esporre fra estranei la propria nudità; ma vi sono anche culture per le quali la persona deve mostrare, rispetto al proprio corpo, un concetto quasi di sacralità, per cui nessuna parte del corpo può essere manipolata a capriccio o lesa “illecitamente” nella sua integrità.
In tal senso l’antropologia offre anche al personale sanitario una diversa chiave di interpretazione delle proprie abituali metodiche operative, in un’ottica di rilancio del dialogo fra antropologia e medicina, sfruttando anche le ricerche e gli studi che si sono occupati nell’ambito della tradizione etnografica dei diversi sistemi di approccio locale al problema della malattia, della cura e della guarigione, a partire dalle altre grandi tradizioni culturali, come quelle della medicina cinese, di quella indiana o di quella giapponese, per giungere perfino a ridurre, laddove possibile, in caso di cura di pazienti di tali stati in ospedali occidentali, le distanze fra le forme di cura da loro richieste in base alla loro medicina tradizionale e quelle offerte dalla medicina occidentale, magari coniugandone tra loro gli esiti in modo sincretistico.