Innanzitutto, ci tengo a fare una premessa: le mie poesie sono sempre estemporanee, frutto di emozioni del momento.
La prima, è stata ispirata da mio padre, colpito prematuramente da una malattia degenerativa. Vederlo nelle condizioni in cui adesso versa, è fonte di profonda sofferenza. Lui che è stato un grande sportivo, insegnante di educazione fisica, skipper e molto altro ancora. Lui che con le mani riusciva abilmente a lavorare il legno, fare ogni tipo di lavoro di manutenzione domestica, riparare svariati oggetti. Lui che con un massaggio ti rimetteva al mondo (aveva studiato anche osteopatia); mentre, adesso, non è in grado neppure di allacciarsi un paio di scarpe! Eppure non ho mai avuto un legame profondo con lui: sono state più le assenze che le presenze. Ma da genitore di due figli maschi piccoli e scapestrati, sono diventata più saggia e comprensiva.
Il secondo componimento è frutto della semplice osservazione di senzatetto che, purtroppo, si incontrano con sempre maggior frequenza accanto alle chiese, fuori dai supermercati e dai centri commerciali. È una dissonanza che non può lasciare indifferenti: opulenza e miseria, realtà che convivono, ma che restano sempre troppo distanti tra loro.
La terza poesia è con ogni probabilità quella che mi sta più a cuore. Sulla violenza di genere ho scritto la mia tesi (una triennale in Storia Moderna): ho trattato dei Centri antiviolenza nell’Italia contemporanea a confronto con la realtà della Casa delle Malmaritate nella Firenze del Cinquecento. Nel corso della storia, è innegabile che le donne abbiano avuto un ruolo a dir poco marginale. Ancora oggi, con gran fatica, possono ambire alla famigerata parità. Ma allora perché tutta questa violenza? Le statistiche parlano chiaro, i femminicidi sono in aumento, o quanto meno, non in diminuzione come ci si potrebbe aspettare da una società nella quale la questione di genere dovrebbe essere un argomento obsoleto. Cosa avranno da temere gli uomini da noi donne? Usurpiamo, forse, un trono che per diritto di nascita è eredità maschile? Fiumi di inchiostro sono stati versati, io mi limito a qualche verso, sofferto.
Quanto conta?
Le dita conta il vecchio
abaco dal legno stinto.
Quanti anni?
Dieci, dodici o duecento.
Poco importa.
I minuti scivolano tra le dita.
Le dita gira il vecchio
tavolo intarsiato di ricordi
la memoria appassita
declino di petali senza vigore.
Le ore si perdono tra le dita.
Le dita guarda il vecchio
come lombrichi affamati di terra.
Tremano le dita
ballano una melodia che loro,
soltanto loro odono,
artefici di posture contro il buonsenso.
I giorni muoiono tra le dita.
Le dita intanto vibrano
una frequenza sconosciuta.
Incomprensibile.
Aliena.
Le dita prova a contare il vecchio.
Le dita vuole contare il vecchio.
Ma al suo grido restano sorde.
Le dita
padrone
di un corpo che un tempo era il suo.
*
Clochard
È notte.
È giorno.
È una piazza.
È una mano.
È una moneta.
Al tempo dei faraoni già esistevano.
Dà briciole di sé ai piccioni.
L’uomo con i gemelli sa dove andare.
Un passo dopo l’altro.
Neanche un respiro per i piccioni.
Una mano di bambino tira un braccio di madre.
Una moneta.
Una mano.
Un grazie.
Un prego.
L’uomo con i gemelli è lontano.
Non vede, eppure sa dove andare.
Di notte lancia la sua moneta alla fontana.
L’occhio della luna la colpisce.
Poi l’oblio.
La Naiade parla.
Ringrazia.
Comprende.
È un clochard.
È inverno.
È una notte.
Al tempo del Nazareno già esistevano.
L’uomo con i gemelli non vede,
eppure sa dove andare.
Il gelo ammutolisce.
La morte un’ombra silenziosa.
Neanche un piccione a salutare.
*
La vacanza del momento
Cielo e oceano
amplesso turchino.
Ai tropici la brezza è un brivido di carezza.
Ma non è la vacanza del momento.
Cime innevate
candido abbraccio, abbaglio di pupille.
Ma non è questa la vacanza del momento.
Trifore del buon augurio
architravi sentimentali, guglie archetipi d’arte.
Ma non è questa la vacanza del momento.
L’orgoglio taurino,
la nevrosi patriarcale
non si curano nell’acqua termale.
Occorre un bagaglio assai pesante,
più di un fardello, una pala
e un agnello sacrificale.
Il Ciclope è sul dirupo.
Questa è la vacanza del momento.
Lancia una mano,
un dito con gemma alata.
Un braccio, mezza gamba.
L’altra metà, ancora un’altra.
Viscere, viscere.
E ancora viscere.
Sangue, sangue.
E ancora sangue.
Budella con l’ultimo panino condiviso.
Vagina con il ciclo del Ciclope.
Viscere, viscere.
E ancora viscere.
Sangue, sangue.
E ancora sangue.
Il ciclope prontamente le palpebre
alla sua Medusa ha serrato.
Fili ramati riflettono il sole.
Acerrimi nemici finalmente annientati.
Questa è la vacanza del momento.