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Viviamo un tempo in cui la velocità è diventata virtù e l’ottimizzazione una fede. Il project management, che un tempo era arte di mediazione tra visione e realtà, oggi rischia di ridursi a un’esecuzione cieca di flussi automatizzati. Ma dietro dashboard perfette e algoritmi intelligenti, resta una domanda cruciale: che cosa stiamo perdendo, mentre crediamo di guadagnare efficienza? Questo non è un rifiuto della tecnologia, né un elogio nostalgico dell’imperfezione umana. È una chiamata al pensiero critico, alla responsabilità, alla capacità di interrogare il contesto prima di aderirvi. Perché non basta prevedere un rischio: bisogna anche comprenderlo. Non basta riallocare una risorsa: bisogna sapere perché lo si fa, e con quali conseguenze. Per dare profondità a questa riflessione, ho selezionato dieci libri che accompagnano e rafforzano il mio punto di vista. Non sono semplici “fonti”: sono compagni di strada. Ogni testo, a suo modo, interroga il rapporto tra sapere, azione, potere e tecnologia. Alcuni parlano di project management, altri di filosofia, altri ancora di etica o di organizzazione. Tutti, però, ci aiutano a mantenere viva una domanda essenziale: vogliamo diventare più rapidi o più consapevoli? La risposta non si trova nei manuali. Ma nella pratica quotidiana del pensiero.


Siamo diventati project manager più rapidi o solo più obbedienti?

Gestire progetti è sempre stato un mestiere complesso, una sfida quotidiana contro l’imprevisto. Negli anni abbiamo costruito metodi, framework, strumenti per dare forma al caos e trasformarlo in valore. Ma oggi, ciò che ci troviamo davanti non è semplicemente una nuova metodologia. È un cambio di paradigma.

La promessa dell’Intelligenza Artificiale è avvincente: pianificazione automatica, previsione dei rischi, riallocazione ottimale delle risorse. Dashboard perfette, alert in tempo reale, algoritmi che imparano. Ma sotto la superficie si annida una domanda inquieta, antica quanto la nostra capacità di decidere: stiamo davvero migliorando la gestione dei progetti, o la stiamo svuotando della sua sostanza umana?

Il PMO non è mai stato una fabbrica di report. È un luogo di decisione, di confronto, di sintesi. È dove il dato incontra il giudizio, dove l’esperienza si allea con il dubbio, dove si valuta non solo cosa fare, ma perché farlo. Automatizzare tutto questo può renderci più veloci, sì — ma anche più ciechi.

La vera minaccia non è l’errore algoritmico. È l’atrofia cognitiva.

Ogni volta che deleghiamo a una macchina la definizione delle priorità, ogni volta che seguiamo una raccomandazione automatica senza comprenderne la logica, stiamo abituando le nostre organizzazioni a non pensare. Il project manager si trasforma in interprete passivo di flussi che non ha progettato. E quando la responsabilità evapora, anche la resilienza strategica si dissolve.

Nel frattempo, ci muoviamo in un ecosistema digitale che premia la velocità e penalizza la profondità. Un mondo in cui la visibilità equivale all’esistenza, e ciò che è lento viene scartato. Scrolliamo, reagiamo, commentiamo — ma sempre dentro griglie di senso preimpostate. E ci illudiamo di essere partecipi, mentre siamo solo esposti.

Il problema non è solo tecnico. È cognitivo. È etico. È ontologico.

Un sistema intelligente può prevedere un rischio, ma non percepire il conflitto latente che lo genera. Può suggerire la riallocazione ottimale di una risorsa, ma non cogliere il malessere che la porterà a dimettersi. Può ridurre i tempi, ma non costruire la fiducia. Può ottimizzare il carico, ma non motivare un team.

In vent’anni di lavoro ho visto progetti fallire non per carenza di dati, ma per assenza di ascolto. Ho visto soluzioni perfette sulla carta generare disastri sul campo. E decisioni imperfette salvare intere iniziative. Perché il giudizio non è un algoritmo: è una pratica quotidiana di attenzione, adattamento, responsabilità.

Ecco perché oggi, più che mai, serve un project manager capace di leggere oltre la superficie, di interrogare la logica dei sistemi, di custodire la complessità senza fuggirla. Chi guida progetti oggi deve padroneggiare tanto la logica del codice quanto la logica del conflitto. Non bastano certificazioni. Servono antenne.

Affidare tutto all’IA è come consegnare il timone al radar: utile, ma solo se chi guida sa ancora leggere le stelle.

L’IA non è il nemico. Ma lo è il nostro uso acritico. Lo è la pigrizia organizzativa che ci spinge a semplificare l’indecidibile. Lo è la corsa cieca all’efficienza che ci fa dimenticare la domanda essenziale: che tipo di project management vogliamo costruire? Uno che ci somigli o uno che ci sostituisca?

Finché ci saranno progetti, serviranno occhi umani per guardarli nel loro insieme. Non basta ottimizzare: bisogna comprendere. Io continuo a farlo. Ogni giorno.

Bibliografia ragionata – per approfondire (davvero) il senso del project management umano

1. Donald A. Schön – Il professionista riflessivo (1983, tr. it. Franco Angeli)

Un classico fondamentale.

In questo libro, Schön spiega come il sapere tecnico non basti. La vera competenza del professionista — e dunque del project manager — è la capacità di riflettere nell’azione, di imparare dall’incertezza, di adattarsi. È esattamente ciò che difendo nel mio articolo: la differenza tra automatismo e giudizio. L’intelligenza artificiale può eseguire, ma non può riflettere. E senza riflessione, non c’è progetto: c’è solo esecuzione.

2. Byung-Chul Han – Psicopolitica (2014, Nottetempo)

Il pensiero critico nell’epoca dell’auto-sorveglianza.

Han ha la capacità di dirci che la nuova forma di potere non ci comanda: ci seduce. E lo fa promettendoci efficienza, velocità, ottimizzazione. L’illusione di essere liberi mentre siamo dentro una gabbia algoritmica è uno dei temi centrali del mio articolo. Se non riusciamo a vedere questa gabbia, è perché ormai la indossiamo come una seconda pelle. Ecco perché servono antenne, non solo certificazioni.

3. Nicholas Carr – La gabbia di vetro. Il lato oscuro dell’automazione (2014, trad. italiana Egea)

Quando deleghiamo troppo, smettiamo di capire.

Carr mostra con precisione come la tecnologia, se non interrogata, riduce le nostre competenze cognitive. È l’atrofia che descrivo nel pezzo: non è l’errore del software che ci deve spaventare, ma la perdita della nostra capacità di interpretare. Carr offre esempi concreti, analisi lucide, e una domanda che mi accompagna da tempo: quanto stiamo perdendo mentre crediamo di guadagnare tempo?

4. Luciano Floridi – La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (2017, Raffaello Cortina)

L’etica del digitale è una questione ontologica.

Floridi ci ricorda che l’IA non è solo uno strumento: è un ambiente. L’infosfera trasforma il modo in cui percepiamo la realtà, e quindi anche il modo in cui decidiamo. Quando dico che il problema non è solo tecnico, ma etico e ontologico, sto riprendendo questa lezione. Se automatizziamo il giudizio, perdiamo non solo la capacità di scegliere, ma anche la responsabilità di essere umani nel farlo.

5. Zygmunt Bauman – Modernità liquida (2000, Laterza)

La corsa all’efficienza uccide la profondità.

Bauman descrive una società dove tutto è fluido, precario, accelerato. In questo contesto, il project management rischia di ridursi a rincorsa affannata, a produzione di visibilità invece che valore. L’algoritmo ci chiede reattività, ma il progetto richiede ascolto. La tua organizzazione è liquida? Bene. Ma se il pensiero si liquefa, non resta nulla da progettare. Solo da obbedire.

6. Piero Dominici – Dentro la società interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione (2014, Franco Angeli)

Il project management è un problema di complessità, non di controllo.

Dominici è uno dei pochi che sa parlare davvero di complessità, senza ridurla a una buzzword. La sua riflessione sulla necessità di “un’etica della complessità” è centrale per me. Se inseguiamo solo la semplificazione, se adottiamo IA per ridurre l’ambiguità invece che per comprenderla, stiamo tradendo il nostro mestiere. Non serve semplificare: serve pensare meglio.

7. Karl E. Weick – Making Sense of the Organization (2001, Wiley)

Saper leggere il contesto è più importante che pianificare perfettamente.

Weick insegna che “fare sensemaking” è la vera chiave della gestione. L’algoritmo ti dice dove sei, ma non perché ci sei arrivato lì. Il project manager che voglio difendere è qualcuno che interpreta, non solo misura. Weick ci dà strumenti per affrontare l’incertezza senza soccombere al feticismo del dato.

8. Giorgio Agamben – Che cos’è il dispositivo? (2006, Quodlibet)

Le dashboard sono dispositivi: ci osservano mentre le usiamo.

Agamben definisce “dispositivo” ogni struttura che orienta i comportamenti. Le dashboard perfette che l’IA ci promette sono dispositivi potentissimi: ci spingono ad agire in un certo modo senza che ce ne accorgiamo. La domanda allora non è solo tecnica: è politica. Chi decide quali dati vediamo? Chi definisce cosa è un rischio, cosa è un successo, cosa è un errore?

9. Matthew Crawford – Contro il multitasking. Riscoprire la dignità del lavoro artigiano (2015, Mondadori)

Il sapere incarnato vale più di mille workflow.

Crawford difende la conoscenza situata, concreta, fatta di attenzione. Il sapere del project manager non è solo teorico o formale: è un’intelligenza fatta di relazioni, ascolto, dubbi. Quando dico che l’esperienza si allea con il dubbio, parlo di questa forma di sapere artigiano. Delegarlo a una macchina è come chiedere a un robot di avere tatto.

10. Maurizio Ferraris – Documanità. Filosofia del mondo nuovo (2021, Laterza)

La rivoluzione digitale non è neutra: è un mutamento antropologico.

Ferraris ci mette in guardia contro la retorica dell’efficienza. Siamo diventati “fornitori di dati”, senza rendercene conto. Anche il project manager rischia di diventare un ingranaggio di una burocrazia automatizzata. Ma progettare significa decidere, prendersi responsabilità, riconoscere che un file Excel non è mai solo un file: è una decisione politica.

Pubblicato il 16 aprile 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / “omnia mea mecum porto”: il vero valore risiede nell’esperienza e nella conoscenza che portiamo con noi

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