Go down

Personalmente, credo di poter stimolare altri a scrivere, e a dare valore ai propri scritti, solo perché mi sento scrittore. Non perché sono socialmente riconosciuto come scrittore: questo non importa. Importa il rapporto tra scrittura e autobiografia. Ognuno ha un’autobiografia, e ha il diritto a narrarla. Così ho fatto, per me stesso, quando, non potendo farmi altrimenti ragione della situazione di angosciose situazioni di lavoro che stavo vivendo, mi sono trovato a esprimermi in versi.

Appropriazione indebita

L’“agire comunicativo” così come lo abbiamo definito a partire dalla riflessione di Jürgen Habermas (Habermas: 1981; Lyytinen: 1999); l’“agire formativo”, intendendo come formazione un approccio attivo che deriva dalle metodologie dell’attivismo pedagogico (Dewey: 1932) e del costruttivismo sociale (Brunner: 1990, Papert: 1980, 1993, 1999, Gardner: 1983); l’“agire organizzativo”, inteso come forma ristretta dell’agire comunicativo che può essere applicata all’interno dei contesti aziendali... ammetto che anch'io anni fa scrivevo così, bisognoso di legittimazioni e teso all'imitazione dello stile di autori che apprezzavo.

Ma ora non riesco più a leggere pagine siffatte. Farcire di citazioni e riferimenti uno scritto, avendo a disposizione il web, è diventato un gioco da ragazzi. Spero che non vi appaiano farcito di citazioni queste pagine che state per leggere: che senso ha parlare di quotidianità, di vita spesa lavorando, degli affetti e delle sofferenze che costellano le nostre giornate, che senso ha parlarne da lontano, con austero e giudicante sguardo professorale. Meglio, molto meglio il caldo, emotivo racconto di chi quelle vicende le vive quotidianamente.

Meglio, molto meglio lo storytelling.

Ma è impossibile non notare la contraddizione. Da un lato sosteniamo l'importanza delle storie, delle narrazione, dei racconti. Da quell'altro imbalsamiamo questi caldi testi –barzellette, storielle, lettere, autobiografie–. Li imbalsamiamo incapsulandoli in un contesto accademico, e sussumendoli a una definizione tecnica, espressa in inglese. Notate come impongono differenti contesti percettivi il termine inglese 'storyteller' e il termine italiano 'cantastorie'. Lo storytelling, forse perché ci viene dall'America, attraverso accreditati saggi ed articoli pubblicati sulle riviste giuste, ci pare un serissimo approccio, degno di trovare posto nel quadro di quella disciplina che ci piace chiamare management. Il cantastorie ci pare appartenere a tutt'altro contesto.

Eppure solo se pensiamo a qualcosa di apparentemente remoto, ma vivo, come il cantastorie, possiamo avvicinarci in modo concreto e sensato allo storytelling. (Prometto di usare qui per l'ultima volta 'storyteller' e 'storytelling').

Brevi tracce di letteratura, o apologia del cantastorie

Il fatto che si prenda per buono un approccio, e si stia qui a discuterne, perché così hanno già fatto studiosi stranieri considerati autorevoli esponenti di quella pseudodisciplina che è il management, mi appare umiliante. Che ci siano arrivati anche questi esperti, buon per loro, ma io penso che valga la pena di guardare a fonti più serie.

Pensiamo alla narrazione orale, alla tradizione popolare, al folklore, al passaggio attraversato dalla letteratura, in ogni contesto linguistico e geografico. Il narratore è un bardo, un rapsodo ('colui che cuce il canto'). Non è il 'proprietario' della conoscenza contenuta nella narrazione. Lui, di fronte ad una conoscenza comune, nella quale la collettività si riconosce, non fa altro che rielaborarla, aggiungendo il contributo della sua soggettività, ed organizzarla in funzione di un contesto, di un pubblico, di una situazione. Ho visto all'opera cantastorie in America Latina, ma non consideratela una cosa esotica: anche da noi cent'anni fa i cantastorie erano ancora fondamentali fonti di intrattenimento e di informazione.

Non pensate nemmeno che si tratti di una manifestazione legata al contesto marginale e minore dell''arte popolare'. Omero era un cantastorie. Dai bardi, dai trovatori e dai giullari discendono i moderni poeti e romanzieri: Ariosto e Cervantes non fanno altro che rielaborare materiali tradizionali.

Comunque, restando all'oggi, è interessante vedere come l'evoluzione dal cantastorie al poeta e al romanziere è visibile oggi sotto i nostri occhi, nelle letterature del cosiddetto Terzo Mondo. Lì convivono cantastorie e romanzieri, e si danno la mano, anzi, si passano di mano in mano i loro testi.

Gabriel García Márquez è un caso esemplare. Non ha fatto altro che ripresentare con la moderna etichetta di 'romanzo' –prodotto offerto al pubblico attraverso quel 'nobile' supporto che è il libro– i contenuti erano quotidiano oggetto di esibizione dei cantastorie colombiani. Dettaglio non trascurabile, sempre ricordato dallo stesso García Márquez, non si trattava di cantastorie qualsiasi: le storie che lui ci narra non sono altro che i racconti che ascoltava narrare da sua nonna.2

Zolle, gomitoli e terre incognite

Le narrazioni sono importanti per ogni popolazione. Sono importanti per i conterranei di García Márquez, per gli abitanti di qualsiasi villaggio e di qualsiasi metropoli. Per i lavoratori di qualsiasi azienda.

Per noi che viviamo nelle organizzazioni, o comunque di sforziamo di capire come e perché le organizzazioni funzionano, la necessità della narrazione è particolarmente evidente. Il motivo è il seguente: le metafore meccaniche –tipica metafora: un immenso orologio, sistema perfettamente regolato di ingranaggi– o organicistiche –la stessa metafora del corpo umano, fatto di organi specializzati, ci suona inadeguata– ci appaiono del tutto inadeguate a descrivere la realtà che abbiamo sotto gli occhi. Non possono certo bastare procedure informatiche e disposizioni operative, descrizioni di processi, organigrammi, mansionari.

Il mondo, anche il mondo in apparenza regolato da un 'modello organizzativo', o da 'leggi economiche', ci appare come un agglomerato informe. Pensiamo al latino glomus, ‘gomitolo’. Un “groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo”, fa dire Gadda al commissario Ingravallo.

Non deve meravigliarci che da qui discenda globo, e quindi globalizzazione. Lo scenario è sempre più evidentemente complesso, ‘mucchio’, ‘ammasso’, ‘moltitudine’, a un primo sguardo informe. Glomeratus: ‘mescolato’, ‘impastato’. In origine sta l'idea di una massa di terra. Come leggere questo testo –tessuto, intreccio– informe, in apparenza illeggibile? Torniamo all'etimologia e seguiamo allo stesso tempo il ragionamento di Gadda.

In origine gleb-, una radice attestata in Italia e nelle aree germanica, baltica e slava, che ci parla di ‘afferrare (una zolla di terra)’.3 Colgo questa metafora: ciò che è afferrabile è solo una zolla di terra, e la speranza, il gesto sul quale si basa la conoscenza, sta nel fatto che quella zolla che –in apparenza per caso– ho preso in mano, mi racconti la storia di tutto quel terreno. Ora, questo è esattamente il senso originario di plot. Plot, l'espressione inglese, malamente traducibile in italiano con 'trama' o 'intreccio', sta in origine proprio per 'small piece of ground'. Anche qui: piccolo pezzo di terra, zolla.

Non mi interessa qui tirare tutte le fila del discorso. Del resto, la stessa idea di poter tirare tutte le fila del discorso è fallace. La 'trama', il tessuto di ogni testo (anche dei testi dei grandi autori), così come la realtà delle organizzazioni che abbiamo sotto gli occhi, anche delle organizzazioni migliori) ci appaiono lontane dalla perfezione.

Ci è più utile qui la metafora del gomitolo – il gomitolo viene prima del tessuto. E dietro il gomitolo, abbiamo visto, la massa informe, metafora ancestrale. Dice Gadda, parlando del metodo di indagine del commissario Ingravallo: lì, in quella massa informe, caotica, si può scoprire “un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di cause convergenti.”4

Chi vuole, leggendo, si può divertire a completare il quadro che ho sommariamente tracciato: stiamo parlando dell'organizzazione sottesa che Borges coglieva nella Biblioteca di Babele, stiamo parlando di ciò che la teoria delle catastrofi chiama frattali –la zolla, in scala diversa, rappresenta tutto il terreno–, stiamo parlando di ciò che la teoria del caos chiama 'attrattori strani', stiamo parlando di algoritmi genetici, di automi cellulari. Stiamo parlando di quella chiave di lettura che Goethe chiamava 'forma formante'.

Ma in fondo basta qui ricordare che stiamo parlando di come, di fronte alla complessità delle organizzazioni, di fronte a questa realtà non descrivibile in termini 'digitali' 'discreti', orientati all'esattezza e all'esaustività, non resta che la via del racconto. Il ‘mondo’ incognito può essere descritto solo per come ci si mostra: vediamo solo labili tracce, segnali deboli. In aneddoti, barzellette, piccoli fatti quotidiani sta il plot. Quell'evento in apparenza irrilevante è il vortice verso il quale cospirano le cause convergenti. Ciò che non può essere descritto altrimenti può essere narrato. C'è un arte condivisa da poeti, romanzieri, musicisti, e anche dalle persone che, in una pausa del lavoro, si riuniscono attorno alla macchinetta del caffé. Sanno vedere nella massa informe il gomitolo, sanno quale filo tirare. Sanno cogliere il plot emergente, e attorno a questo costruire una narrazione. Sanno dare senso al vissuto quotidiano.5

Chi aggiunge e chi toglie

Ho detto che c'è qualcosa che accomuna il poeta, il romanziere, l'artista e il lavoratore che narra ed ascolta storie.

I testi di poeti e romanzieri costituiscono una rete che chiamiamo 'letteratura'. Analogamente, possiamo dire che e organizzazioni sono anche –o sopratutto– reti di storie. Storie 'scolpite' in software procedure 'ufficiali', ma anche –o sopratutto– storie perse nel rumore nella mensa, nascoste nei cassetti, sintetizzate in barzellette e soprannomi. Storie orali e scritte, storie intrecciate, slabbrate, dai confini sfumati, fitte di rimandi. Storie non sempre facili da scoprire e da comprendere.

Detto di poeta, romanziere, e di lavoratore narratore di storie, dobbiamo ora dire di altre figure sociali, il cui contributo alla rete della conoscenza è assai più dubbio.

Barbara Czarniawska, meritevole autrice del testo forse più interessante di questo filone, Narrating the Organization,6 pone il modo chiaro la questione: visto che si tratta leggere e interpretare narrazioni, il il manager, lo specialista in Risorse Umane, il consulente, tutti costoro dovrebbero oggi avere competenze vicine e quelle del critico letterario, o del semiologo.

Per Czarniawska, Umberto Eco è un punto di riferimento. Seguiamo dunque l’evoluzione del pensiero di questo celebrato intellettuale. In tempi ormai lontani ci aveva stupito parlandoci di Opera aperta. Andando contro il nostro conformismo ci aveva detto che l’opera non è dell’autore, che in fondo non esiste: l’autore scrive sempre rimaneggiando testi altrui. L’opera non può essere sigillata e chiusa: è sempre soggetta ad interventi, aggiunte, elaborazioni, interpretazioni.

Così, appunto, sono le storie aziendali: di tutti e di nessuno, opera mai terminata, aperta a contributi e aggiunte e rielaborazioni.

Aggiungiamo che questo, se era già vero quando Eco scriveva, negli anni sessanta, è ancora più vero oggi: la tecnologia rende più facile ed evidente la possibilità di aggiungere, condividere. Pensiamo a come può essere rimaneggiato ogni testo (a cominciare da quello che ora sto scrivendo) quando si disponga non solo di un testo stampato, ma della sua versione in Word. O ancora, pensiamo a come facilitano la diffusione e la condivisione di storie l’e-mail e il Web – luogo di scrittura collaborativa.

Ma Eco negli anni settanta era anche andato oltre: aveva sottolineato l’importanza delle ‘decodifiche aberranti’. Ciò che rispetto a una norma data priori può apparire ‘aberrazione’, errore, è in realtà nuova ricchezza emergente: il lettore è sempre anche autore, leggendo, dal suo peculiare punto di vista, contribuisce al lavoro creativo dell'autore. Il testo è un luogo di incontro.

Dove sta il problema? Sta nel fatto che se la mia interpretazione non vale più della tua, cade la base materiale sulla quale si fondano l’identità professionale, il potere, il guadagno di chi fa l’interprete di professione. Di Umberto Eco, come di ogni consulente autorevole interprete di ‘narrazioni aziendali’.

Ecco così che Eco, trent’anni dopo anni dopo aver scritto di opere aperte e di interpretazioni aberranti, a partire dagli anni novanta viene a parlarci di ‘limiti dell’interpretazione’.

Ci fa sapere che c’è una interpretazione semantica, che risponde alla semplice domanda: ‘cosa vuol dire questo testo?’. Bontà sua, Eco concede che questa interpretazione è accessibile a chiunque, anche a noi tapini, poveri mortali lettori. Ma poi, aggiunge saccente, c’è una interpretazione semiotica: ‘capire e spiegare come è possibile che il testo dica quello che dice’. Naturalmente questo secondo, più alto livello di interpretazione, è accessibile solo agli specialisti. Che dunque sarebbero ancora e sempre di più necessari.7

Ecco così legittimato il ruolo di editor di case editrici, recensori, critici letterari: figure non troppo lontane da quella censore. Di questo potrebbe importarci poco, in questa sede. Ma Czarniawska, con ragione, vede l'analogia tra il ruolo del critico letterario, interprete di un testo scritto, e quella del consulente che interpreta quel testo che è l'organizzazione. Ecco così legittimato il comportamento di quei professori e di quei consulenti che teorizzano l'importanza delle learning histories e in genere delle narrazioni aziendali – ma poi pretendono di imporre lo stile e un rigido formato, già scandito in paragrafi, a chi scrive le storie, la propria storia. Ecco così legittimato l'atteggiamento di chi impone uno schema anche a chi scrive la propria autobiografia, e anzi fonda una scuola per raccoglitori professionali di autobiografie altrui.

Alienazione

Ma a noi, cosa ci importa di qualcuno che ci spieghi con parole complicate perché quel testo ci convince e ci commuove? Quello che vale per la mediazione dei critici letterari che pensano loro diritto/dovere dire agli altri cosa leggere, e come leggere, vale per i consulenti che ci dicono che le storie che raccontiamo sono importanti, ma contemporaneamente ci considerano incapaci di raccontarle.

Lasciamo perdere i dotti e arzigogolati ragionamenti degli interpreti, lasciamo perdere libri di management che ci vengono a dire con parole difficili cose che sappiamo benissimo.

Sappiamo benissimo che l'organizzazione è una rete di storie, il luogo di incontro di donne e uomini che si sono incontrati e conversando mettono insieme e tengono insieme, sulla basa di un incontro vero, un loro linguaggio vero.8

Weick ha scritto bei libri sul 'dare senso' e sul 'senso comune' – ma in fondo i suoi libri non servono altro che a farci tirare un sospiro di sollievo. Siccome lavorando sembra che ci debba adeguare a modelli esterni, che spesso ci risultano insensati, e che però valgono in virtù della fonte –quel manager, quella società di consulenza, quel teorico del management– per fortuna ecco qualcuno che, pur sempre parlando dal pulpito, ci dice una cosa sensata, una cosa che appunto, nel nostro buon senso, davamo anche per scontata.

Ma con questo, almeno in Italia, Weick non aggiunge nulla, e invece toglie qualcosa. Dicevamo buon senso, dicevamo “parla come mangi” e adesso per essere up to date, à la page –sempre espressioni straniere, lontane dal senso comune– dobbiamo parlare di sensemaking. Così il sensemaking etichettato Weick, un sensemaking divenuto astratto, modellato secondo quanto descritto in un libro, impedisce il sensemaking 'pratico' e quotidiano che regolava spontaneamente le relazioni tra colleghi.9

C'è un bel paradosso in tutto questo, anzi una contraddizione: la contraddizione esposta all'inizio di questo scritto. Si dà senso al mondo narrandolo. Il lavoratore lo sa bene: 'parlare di quello che si fa' è importante tanto quanto 'fare le cose'. La narrazione ha uno scopo autoterapeutico, è fonte di socializzazione. L'organizzazione è una rete di storie: se le persone al lavoro smettessero di scambiarsi informazioni al di fuori di procedure nessuna azienda funzionerebbe. Se i lavoratori smettessero di conversare tra di loro –su temi inerenti al lavoro, ma non solo– l’‘andare a lavorare’ perderebbe senso.

Qualcuno, ora, ci viene a dire che queste narrazioni sono importanti. Lo sapevamo già. Lo sapeva ogni lavoratore. Ma ora, essendo riconosciuta l’importanza di queste narrazioni da parte di chi prima non se ne era minimamente occupato, si assiste a un tentativo di normalizzarle e di espropriarle: ed ecco lo schemino per scandire in capitoli la storia, il manuale per standardizzaree le autobiografie, il libero flusso del racconto ingabbiato in un questionario. Regole si stesura del testo prive di qualsiasi originalità, oltretutto, ma presentate in libri e in articoli con tanto di nota a difesa del copyright. Non ci si preoccupa di come per la persona sia difficile e significativo accettare di condividere con un terzo estraneo il proprio narrare. E ci si preoccupa invece che quel narrare sia normalizzato, predisposto per l’uso che il terzo estraneo vorrà farne: la sua ricerca, il suo articolo, il suo libro.

Non voglio rinunciare a chiedermi come apparirà agli occhi di chi ha scritto una storia, quella stessa storia compressa in una forma che le è estranea, inglobata nel testo firmato da un illustre studioso.

La scrittura è per chi scrive è una oggettivazione, ma vita che egli ha dato all'oggetto –quando l’oggetto è espropriato– gli si contrappone ostile ed estranea.

Pars construens

Tutto secondo me dipenda dalla hybris, dall’arroganza con la quale si rielabora il materiale altrui. Ho detto di come ogni testo è una rielaborazione di un testo precedente. Ma il problema qui è che il teorico dello storytelling resta chiuso in un atteggiamento di superiorità: gli autori delle narrazioni non sono da lui riconosciuti come autori, ma solo come fornitori di grezza materia prima.

E’ la prosecuzione, in altro contesto, di un modo di intendere le relazioni sociali che troppo spesso si manifesta nell’aula di formazione. Il formatore non riesce a fare ameno di pensare: io sono colui che insegna, tu stattene lì buono nel tuo ruolo di discente.

Quando, in incontri con altri formatori o consulenti, accenno all’idea della rete di conoscenze –una rete alla quale tutti contribuiamo– incontro sempre colleghi che regiscono piccati: ‘Ma come, faccio questo lavoro da trent’anni’; ‘Non siamo tutti uguali’ (dove è implicito ‘io sono migliore’). Nessuno mette in dubbio le competenze, le capacità e le conoscenze di chi ha anni di professione alle spalle (anche se un po’ di autocritica non guasterebbe).

Ma resta incontestabile un dato di fatto: tra le persone che ho di fronte, e che stavolta partecipano a un incontro che mi vede nel ruolo di docente, tra queste persone c’è certamente qualcuno che su un altro qualsiasi tema potrebbe ‘dare lezione’ a me. E ancor più incontestabile resta un altro dato di fatto: almeno su un tema l’altro sarà più esperto: la sua vita.

Credo che l’atteggiamento arrogante, consapevole o meno, nei confronti della produzione dell’altro, sia una discriminante fondamentale.

Si può lavorare meglio. E condividere le reciproche scritture è un modo per farlo. Ma si possono condividere le reciproche scritture solo se si tiene lontana da noi l’ansia e l’irritazione. Il rispetto per se stessi va di pari passo alla considerazione per gli altri. Un comprensivo interesse, la confidenza, la fiducia, sono requisiti necessari per lavorare rispettosamente e costruttivamente sui testi prodotti da altri.

L’‘autore tradizionale’ –il bardo, il trovatore, il cantastorie– e cioè l’autore precedente alla fase borghese che ha visto trasformata la scrittura in una lotta per l’affermazione della proprietà del testo –‘diritto d’autore’, ‘copyright’–, l’autore tradizionale, non si nascondeva, ma nemmeno ostentava il proprio ruolo, era orgoglioso della propria opera, ma non arrogante. Sempre consapevole di non aver fatto altro che elaborare materiali preesistenti. Per questo, pur consapevole del proprio apporto, spesso sceglieva consapevolmente l’anonimato.

Chi lavora su narrazioni aziendali, credo, dovrebbe mantenersi vicino a questo atteggiamento.

Chiudo ricordando alcune esperienze personali.

Il sito www.bloom.it, la rivista Persone & Conoscenze (edita dalla stessa casa editrice di Sviluppo & Organizzazione), la collana Virus (edita da Guerini & Associati) si propongono come luoghi destinati a dare spazio a narrazioni.

Per non nascondermi dietro un dito, segnalo due titoli della collana Virus che esemplificano il mio punto di vista.

L’Educazione sentimentale del manager, di Lauro Venturi, è scrittura autobiografica libera da vincoli. Un giovane, sulla soglia tra l’adolescenza e l’età adulta, racconta se stesso a se stesso, in un diario. Trent’anni dopo, quando riprende in mano quelle privatissime pagine, è diventato un manager. Giusto chiedersi cosa lega queste due persone. Giusto chiedersi come si cambia, ma anche in quali radici affondi la nostra etica del lavoro.10

Ti sembra facile. Il BPM e il workflow della biancheria domestica è un opera collettiva, scritta da trenta persone impiegate in ruoli diversi –da dirigente a tecnico a segretaria– presso TSF, una importante azienda di servizi informatici. Opera collettiva, perché frutto di un accurato lavoro di gruppo: selezione dei testi e revisioni incrociate, scelte condivise per titoli e organizzazione complessiva del testo. Ma anche opera dove l’individualità è pienamente rispettata: ognuno sceglie il suo genere letterario, dal racconto ala poesia al fumetto. Per ognuno, e per il gruppo nel suo insieme, e per l’azienda che ha scelto di vivere questo progetto, è un ‘lavoro su di sé’, un sofferto allontanamento dall’autocensura. L’organizzazione, di solito, ci chiude in un ruolo. Ma chiusi nel ruolo non possiamo dare all’organizzazione il contributo che saremmo in grado di dare. La censura imposta dall’organizzazione alla manifestazione delle potenzialità individuali finisce per tradursi in autocensura. Convinti che non avremo spazio, si finisce per non provarci nemmeno.

Purtroppo, a bene guardare, nel proporre di ‘raccontare storie’, imponiamo in realtà una censura: ‘puoi raccontare di te, ma solo nel modo che dico io’. Ritengo si possa agire altrimenti: si può lavorare con le persone stimolando la libertà espressiva di ognuno. Se si ragiona insieme attorno all’atteggiamento del critico letterario, del recensore, e si mostra come in questo ruolo si annidi il tarlo della censura, si favorisce l’abbassamento della soglia dell’autocensura. Se svelo i segreti del mio rapporto con la scrittura, aiuto l’altro a dare valore al suo personale rapporto con la scrittura. Così, vedrete, persone inattese tireranno fuori dal cassetto, prima timidamente e poi con orgoglio, le cose che hanno scritto. E attorno alla scrittura vedremo lavorare insieme persone fino ad allora divise da differenze di ruolo, o da ostilità.11

Personalmente, credo di poter stimolare altri a scrivere, e a dare valore ai propri scritti, solo perché mi sento scrittore. Non perché sono socialmente riconosciuto come scrittore: questo non importa. Importa il rapporto tra scrittura e autobiografia. Ognuno ha un’autobiografia, e ha il diritto a narrarla. Così ho fatto, per me stesso, quando, non potendo farmi altrimenti ragione della situazione di angosciose situazioni di lavoro che stavo vivendo, mi sono trovato a esprimermi in versi.12

Credo che ci sia una bella differenza tra il parlare di sé, mettendosi in gioco, lasciandosi vedere, e il raccogliere e l’incasellare con atteggiamento giudicante le parole scritte da altri.


Bibliografia

  • AA.VV., Ti sembra facile. Il BPM e il workflow della biancheria domestica, Guerini e Associati, 2005.

  • Berger, Peter L. e Luckmann, Thomas, The Social Construction of Reality, Doubleday and Co, 1966; trad it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969.

  • Czarniawska, Barbara, Narrating the Organization. Dramas of Institutional Identity, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1997; trad. it. Narrare l’organizzazione. La costruzione dell'identità istituzionale, Comunità, 2000

  • Eco, Umberto, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, 1990.

  • Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, 1962.

  • Eco, Umberto, Trattato di semiotica generale, Bompiani, 1975.

  • Gadda, Carlo Emilio, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Einaudi, 1957.

  • Varanini, Francesco, Viaggio letterario in America Latina, Marsilio, 1998.

  • Varanini, Francesco, “La restituzione poetica”, Appendice a L’irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo, Guerini e Associati, 2003.

  • Bocchi, Gianluca e Varanini, Francesco, “La macchina analogica”, sta in Bocchi, Gianluca e Varanini, Francesco, Le vie della formazione, Guerini e Associati, 2013.

  • Varanini, Francesco, “Un certo tipo di letteratura. Breve storia di un mondo possibile”; sta in: Marco Minghetti e Fabiana Cutrano (a cura di), Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello Humanistic Management, Etas, 2004.

  • Varanini, Francesco, “Globalizzazione”, sta in Le parole del manager. 108 voci per capire l’impresa, Guerini e Associati, 2006.

  • Varchetta, Giuseppe, Introduzione a Karl Weick, Senso e significato nell’organizzazione, cit.

  • Varela, Francisco J.; Thompson, Evan; Rosch, Eleanor, The Embodied Mind. Cognitive Science and Human Experience , Massachusetts Institute of Technology, 1991; trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell'esperienza, Feltrinelli, 1992.

  • Venturi, Lauro, L’educazione sentimentale del manager, Guerini e Associati, 2005.

  • Weick, Karl, Sensemaking in Organizations , Sage, 1995; trad. it. Senso e significato nell’organizzazione, Cortina, 1997.

Note

1Articolo apparso sulla rivista Sviluppo & Organizzazione, 221, maggio-giugno 2007.

2Rimando, per un più compiuto sviluppo di questo ragionamento, e per i riferimenti bibliografici, a Varanini, 2004.

Un approfondito esame di vizi e virtù di Gabriel García Márquez si trova in Varanini, 1998.

3 Vedi la voce “Globalizzazione” in Varanini, 2006.

4 Gadda, 1957.

5Per una articolata riflessione sulla accettazione e sulla lettura della complessità organizzativa, vedi: Varanini e Bocchi, 2013.

6Czarniawska, 1997.

7Umberto Eco, 1962: il libro, raccolta di saggi precedentemente usciti in riviste, ha vissuto vicende editoriali complesse: è stato più volte riedito in versioni via via modificate; l'ultima nel 1976. Eco, 1975. Eco, 1990.

8Vedi Giuseppe Varchetta, Introduzione a Weick, 1997.

9Per riflettere sul dare senso al lavoro, inteso come esperienza quotidiana, più di Weick consiglierei due libri diversissimi tra loro: Berger e Luckmann, 1966 e Varela, Thompson, Rosch, 1991.

10Venturi, 2005.

11 AA.VV., 2005.

12Il mio punto di vista sulla scrittura intesa come chiave di lettura ‘etnografica’ delle organizzazioni è esplicitato (con ampia bibliografia) in “La restituzione poetica”, 2003.

Francesco Varanini

Francesco Varanini / ⛵⛵ Scrittore, consulente, formatore, ricercatore - STULTIFERA NAVIS co-founder

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