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Questo testo nasce da una riflessione personale sul concetto stesso di “organizzazione”. Non come struttura da disegnare, ma come forma vivente, emergente, mutevole. Lontano dalle astrazioni del management e dalle mitologie della performance, l’articolo esplora cosa accade quando chi lavora diventa anche autore del proprio contesto operativo. In dialogo implicito con pensatori come Edgar Morin e Amy Edmondson, e con un unico riferimento esplicito al libro “Organizzazioni aperte” di Alberto Gangemi, il testo mette in discussione la centralità delle regole, il culto del controllo, e la retorica della motivazione individuale. Ciò che emerge è una proposta radicale e concreta: ripensare il lavoro come spazio di progettazione distribuita. L’organizzazione, se esiste, è un verbo: accade, si modifica, si cura. O si diserta.


Non ho mai creduto fino in fondo all’organizzazione come struttura. O forse sì, ma solo quando la vedevo nascere sotto i miei occhi: nei corridoi, nelle pause, in quelle frasi a metà dette tra una chiamata e l’altra. È lì che prende forma il vero disegno, non nelle slide. L’organizzazione, quella reale, non si mostra nei piani, ma nei ripiani dimenticati, nei silenzi tra un aggiornamento e l’altro, in quella mail scritta “perché tanto serve metterlo per iscritto”.

C’è una scena ricorrente, nella mia memoria recente. Una stanza virtuale, tutti con la webcam accesa, un’agenda condivisa che nessuno ha letto, e una strana fatica nel cominciare. Non è l’inerzia: è la mancanza di senso. Il lavoro si è organizzato altrove, forse mezz’ora prima, forse ieri. In uno scambio rapido su WhatsApp, in una riga di codice commentata, in una telefonata notturna tra colleghi che si stimano. Lì è dove accade ciò che conta.

esiste ancora l'intelligenza collettiva?

Con gli anni, ho smesso di chiedermi come “si dovrebbe fare” e ho cominciato a osservare come si fa davvero. Dove si nasconde l’intelligenza collettiva? Chi tiene insieme i pezzi quando tutto sembra sgretolarsi? Spesso non è il responsabile, né il team leader, né il facilitatore con badge e canvas. È chi sa ascoltare. È chi legge il contesto. È chi, senza permessi ufficiali, prende l’iniziativa giusta, nel momento giusto.

Il progetto non comincia quando si apre Jira. Inizia quando qualcuno dice: “forse così non funziona”. L’organizzazione non è quella stampata nei manuali ISO, ma quella che si reinventa in una call saltata, in un conflitto non previsto, in un caffè allungato di dieci minuti. Se c’è una lezione che ho imparato, è che l’organizzazione è una funzione emergente, non un oggetto di controllo. È la forma che assume il lavoro quando lo lasci vivere.

Siamo abituati a pensare che le organizzazioni siano fatte di “persone motivate”, come se il comportamento organizzativo dipendesse solo dalla volontà individuale. Ma questa è una scorciatoia ideologica che serve soprattutto a chi non vuole mettere mano alla struttura. La motivazione senza strumenti, senza contesto, senza margine di agency resta lettera morta. L’insistenza sulla formazione individuale è necessaria, certo, ma largamente insufficiente. Se non si agisce anche sulla forma dell’organizzazione, tutto si riduce a un appello al carattere, al carisma o alla resilienza dei singoli.

Ecco perché oggi non mi interessa più come è disegnata l’organizzazione, ma come si disegna da sé. Lascio che siano le pratiche a parlare. E spesso parlano chiaro: creano vie traverse, generano scorciatoie etiche, costruiscono senso con materiali poveri. Là dove c’è una tensione, c’è già un inizio di progettazione. E chi lavora, in fondo, lo sa. Lo sa anche quando non ha parole per dirlo.

chi lavora, progetta. Sempre. Anche quando non lo sa

In questo senso, leggendo Organizzazioni aperte di Alberto Gangemi, ho ritrovato un’intuizione che risuona: “chi lavora, progetta. Sempre. Anche quando non lo sa.” È un’affermazione che rompe con decenni di separazione tra pensiero e azione, tra vertice e base. E lo fa senza retorica, ma con osservazioni minime, atti mancati, tentativi. È lì che si nasconde la possibilità di una trasformazione reale.

Persino nella fabbrica sovietica, come osserva Edgar Morin, esistevano forme di adattamento e aggiramento delle direttive centrali. I direttori si chiamavano tra loro per scambiarsi materie prime, gli operai scomparivano per cercare lavoretti con cui integrare il salario. Dove l’organizzazione è progettata per riprodursi fedelmente, là nasce per contrasto l’antagonismo creativo. Oggi quell’antagonismo è vivo anche in molte aziende che si dicono innovative. Il loro disegno organizzativo è spesso ancora figlio di un mondo che non c’è più. Ma le persone – quelle sì – si muovono, inventano, riparano.

La domanda di maggiore autonomia organizzativa cresce ovunque, anche nei contesti più tradizionali. È una spinta che ho visto emergere in molte interazioni: le persone vogliono decidere come lavorare, ma anche contribuire a disegnare il contesto in cui lavorano. Tempi, strumenti, ruoli, spazi: chi lavora li conosce meglio di chiunque altro. E se ne prende già la responsabilità. Solo che spesso lo fa senza legittimità.

Questo è il cambiamento più difficile da riconoscere per le organizzazioni: quello in cui il potere di progettare non passa più dalla funzione HR o dai vertici, ma si distribuisce. L’azienda, in questi casi, può diventare un laboratorio, un terreno di sperimentazione sul proprio stesso modo di funzionare.

E allora, cosa succede se si dichiara esplicitamente nella proposta di lavoro che ognuno contribuirà all’architettura organizzativa? Cosa succede se tutti conoscono gli stipendi? Se si può rifiutare una riunione che non sembra prioritaria? Se il budget viene aggiornato ogni tre mesi e non una volta l’anno? Se non ci sono regole fisse per ferie, viaggi, formazione?

Uno degli obiettivi più radicali è forse questo: trattare l’organizzazione come un sistema operativo che può essere aggiornato, testato, rifattorizzato. Non con grandi riforme calate dall’alto, ma con micro-interventi distribuiti. Serve un metodo, serve un set di oggetti organizzativi di base che siano progettabili da chi lavora. Serve accettare che anche le sedie, le lampade e gli ascensori raccontano qualcosa del modo in cui l’organizzazione si muove, pensa, agisce.

Il design organizzativo, in questa visione, non è una disciplina astratta. È il prolungamento naturale della user experience nei luoghi di lavoro. È la forma tangibile dell’intelligenza situata. Abbiamo imparato a riconoscere una buona interfaccia, un buon servizio, un oggetto ben progettato. Ora possiamo (e dobbiamo) imparare a riconoscere una buona organizzazione. O meglio: una che ci permetta di viverla, trasformarla, correggerla.

Tutto questo, però, ha un prerequisito spesso invisibile ma decisivo: la sicurezza psicologica. Amy Edmondson ha ragione quando la definisce “il prodotto inevitabile di ogni singolo gruppo di lavoro”. È l’aria che si respira, e determina se si può parlare, dissentire, proporre, fallire. Senza questa condizione, nessuna autonomia è possibile. Non perché manchi la competenza, ma perché manca il coraggio di usarla.

La sicurezza psicologica non è indulgenza. Non è dire sempre sì. È possibilità concreta di assumersi un rischio relazionale. È il contrario dell’impunità, e il contrario della paura. È ciò che permette alla qualità di emergere, perché apre lo spazio per l’esercizio delle capacità: ideare, proporre, decidere. Dove manca, il sistema si irrigidisce. Dove c’è, si adatta. Diventa flessibile, non fragile.

Tutto questo ci porta a una domanda che, da sola, può cambiare il modo in cui guardiamo al lavoro: chi me lo fa fare?

È la domanda che ci spinge ad agire o a disertare. È la domanda che ogni persona si fa, ogni giorno, prima ancora di iniziare a lavorare.

E ogni organizzazione dovrebbe saperle dare una risposta.


Pubblicato il 07 aprile 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / “omnia mea mecum porto”: il vero valore risiede nell’esperienza e nella conoscenza che portiamo con noi

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