La domanda filosofica “può una macchina pensare?” diventa la domanda ingegneristica “può il pensiero essere meccanizzato?” Il pensiero viene ridotto ad una serie di “facoltà” più o meno operative; e più profondamente, la realtà è postulata come materia e nient’altro e l’IA diventa il banco di prova sperimentale delle varie teorie che tentano di spiegare il meccanismo in base al quale la mente “funziona”.
“Può una macchina pensare?” Appena formulata, la domanda fondante dell’Intelligenza Artificiale trascende immediatamente i confini della tecnica e perfino della scienza. In questo testo, essenzialmente teoretico, si sostiene la tesi che l’Intelligenza Artificiale è “una continuazione della Filosofia con altri mezzi”, parafrasando la celebre formula di Von Clausewitz su guerra e politica. Al di là degli accadimenti tecnici o scientifici, si impone, dunque, una disamina filosofica della storia e della teoria di questa disciplina, senza dubbio la più foriera di cambiamenti per i decenni a venire. Lo scopo è duplice: per i filosofi, riconoscere nell’Intelligenza Artificiale gli stessi caratteri del resto della Filosofia e lo stesso anelito per il Vero, oltre la matematica e la logica simbolica; per i ricercatori di Intelligenza Artificiale, riconoscere l’identità (non l’analogia o la somiglianza o la preveggenza, ma l’identità) delle proprie problematiche con quanto la Storia della Filosofia ha prodotto in oltre due millenni.
Introduzione
“Can machines think?”
“Can machines think?” è la domanda fondante dell’Intelligenza Artificiale, posta da Alan Turing nel celebre scritto del 1950 “Computing Machinery and Intelligence”. Quando al convegno di Dartmouth (1956) l’espressione “Intelligenza Artificiale” venne coniata, i partecipanti avevano tutti ben presente gli scritti di Turing e le sue provocanti idee sulla possibilità di creare una macchina pensante.
Da anni sosteniamo che in questa domanda di Turing non c’è nulla di tecnico, e che dunque l’Intelligenza Artificiale non solo non sia una tecnologia ma soprattutto che non lo sia mai stata. L’IA è “una continuazione della Filosofia con altri mezzi”, e per le conseguenze di questa definizione rimandiamo ad altre opere già pubblicate.[1]
Tuttavia il carattere non-tecnico dell’interrogativo di Turing richiede qualche chiarimento supplementare, considerando la facilità con la quale oggi si confonde tecnologia e progresso delle macchine. Il chiarimento permetterà anche di evidenziare ulteriormente l’oblio della carica “filosofica” dell’IA e la sua riduzione a semplice tecnologia ancella della Filosofia della Mente all’interno delle Scienze Cognitive.[2]
Precisiamo comunque che non si intende qui sostenere che Turing fosse appassionato o anche minimamente interessato alla filosofia. Turing era un ingegnere-matematico dotato di quella particolare “ingenuità” che permette al genio di affrontare i problemi con occhi nuovi e freschi.3 Ma dopo l’esuberanza del nuovo punto di vista viene il momento della comprensione, della meditazione, della digestione della novità all’interno del movimento dello spirito umano nel suo complesso, e questo è il compito della Filosofia. Turing (che la considerava noiosa ed inutile) era fondamentalmente un ingegnere ed un matematico, insomma uno scienziato a forte vocazione tecnica, e quando parlava di macchine intendeva non un concetto astratto ma i computer digitali. Si può allora sostenere che la sua domanda non sia tecnica ma filosofica? Sostenere non solo che le vicende dell’IA debbano anche essere analizzate alla luce della filosofia della tecnica, ma che l’IA in quanto impresa intellettuale sia essenzialmente parte della Filosofia? A questo tenteremo di rispondere nelle pagine che seguono.
In principio è la macchina
Per spiegarlo dobbiamo iniziare da lontano, dall’Iliade di Omero e in particolare da uno dei suoi più famosi personaggi, Ulisse. Ulisse è colui che inventa il cavallo che consente ai Greci di occupare Troia dopo dieci anni di assedio; non è importante a confronto di Agamennone, Ettore o Achille, ma è l’unico a meritarsi una seconda opera tutta incentrata su di lui, l’Odissea. L’Ulisse omerico è un uomo capace, che sa sbrogliare qualunque situazione, che sa cavarsela davanti a qualunque pericolo, non tanto per la sua forza fisica ma perché è pieno di risorse, capace di ingannare e di nascondersi, insomma “astuto”. Tutto questo Omero lo riassume in una sola parola, πολυ-μήχανος (polu-mēkhanḗ), ovvero poly-mekanos.
Tre secoli dopo Omero anche Sofocle fa apparire il personaggio di Ulisse, nella tragedia del “Filottete”, questa volta in una luce ancora più negativa. Ulisse anche se aristocratico imbroglia come un volgare plebeo, guidato da una morale utilitaristica senza onore. Siamo davanti insomma ad un maestro della “macchinazione”, un manipolatore per cui il fine giustifica sempre i mezzi. Nell’Ulisse di Sofocle il μήχανο è essenzialmente inganno (in italiano resta il senso nell’idea di macchinazione appunto). È questa l’accezione originaria da cui deriva la parola “macchina”, con una connotazione ben lontana da quella di “meccanismo” che noi moderni invece prendiamo come equivalenti in significato.
In un’altra tragedia di Sofocle, la ben più conosciuta “Antigone”, la parola riappare nelle parole dal Coro che canta la terrificante magnificenza dell’uomo nel mondo:
"...// Degl'ilari uccelli la specie / e le stirpi delle bestie selvagge / e la prole del mare / accerchia e cattura / nelle spire attorte delle reti / astutamente l'uomo; e doma / con le sue arti [μηχαναις] / la fiera che ha silvestre covile fra i monti
/ ..." (vv. 342-350) e poco dopo
"… / Scopritore mirabile / d'ingegnose risorse [Σοφον τι το μηχανοεν / τεχνας...], / ora al bene / ora al male s'incammina: / ... " (vv.364-366)
Queste ultime righe sono rivelatrici di cosa significava μηχανή (mēkhanḗ) nella cultura greca: la capacità tipicamente umana – grazie al proprio ingegno – di imposi sulla Natura, in qualche modo di sfidarne l’ordine prestabilito e di innalzarsi a dominatore del mondo. L’idea di macchina che ci viene dalla Grecia è dunque estremamente moderna malgrado la distanza tecnologica che ci separa; basti pensare che già in Sofocle c’è tutta la retorica della tecnologia moralmente neutra e servibile indifferentemente a scopi elevati o biechi (...ora al bene ora al male s’incammina”).
Questa continuità porta a concludere che la macchina in senso originario, il principio della μηχανή (principio non in senso cronologico ma di fondamento) sia oggi come allora la Ragione, il pensiero. L’Antigone è la tragedia del conflitto tra legge dell’uomo e legge degli Dei, tra la regola dello Stato rappresentata da Creonte e le leggi “non scritte eppure sicure degli Dei…esse non vivono da oggi o da ieri, ma da sempre, e nessuno sa da quando apparvero…”[3], insomma le regole immutabili della Natura. In questa battaglia tra Natura e Cultura la Ragione (ratio) è un elemento “artificiale”, che sovverte l’ordine della Natura, quella Ragione che la filosofia greca per prima ha teorizzato e definito, e senza la quale non esisterebbe neanche il contemporaneo progresso tecnico/scientifico. In questa prospettiva macchina, Ragione e artificio (l’astuzia omerica di Ulisse) sono un coacervo unitario indissolubile. L’uomo non può volare, non è nella sua natura; eppure grazie alla propria ragione (ingegno) è in grado di costruire l’aereo, “macchina volante” in grado di farlo. L’uomo non può sollevare un peso di tonnellate; eppure grazie alla propria ragione (ingegno) è in grado di costruire gru meccaniche in grado di farlo. È questa capacità di violare le leggi naturali che fa dell’uomo e della sua Ragione una presenza terribile e misteriosa nel mondo.[4]
Da domanda a test
A questo punto iniziamo a vedere come la domanda di Turing, anche oltre le sue intenzioni, non possa essere letta – o meglio non abbia senso – in chiave puramente tecnologica. Ad ulteriore conferma andiamo adesso a vedere il celebre “test di Turing”, commentato da molti ma non sempre con una attenzione adeguata a quello che Turing ha realmente scritto.[5]
Iniziamo con il dire che non si tratta affatto di un test. È la successiva lettura e letteratura a trazione tecnico-scientifica che lo ha trasformato in un “esame” che la macchina dovrebbe superare per poter essere definita intelligente. Questa trasformazione è già in sé indicativa di quell’oblio della carica filosofica dell’IA che già abbiamo segnalato, e che nel tempo ha preso anche la forma di nuove formulazioni e versioni del test in nome di una supposta “imprecisione” di quanto scritto da Turing. Noi sosteniamo invece che Turing è estremamente preciso nella sua formulazione, a condizione di leggerlo senza pregiudiziali ingegneristiche. Non c’è nessun test, ma un “gioco” (imitation game) a sostituzione di una domanda ritenuta troppo vaga nel senso di interpretabile in troppi modi diversi: “If the meaning of the words ‘machine’ and ‘think’ are to be found by examining how they are commonly used it is difficult to escape the conclusion that the meaning and the answer to the question, ‘Can machines think?’ is to be sought in a statistical survey such as a Gallup poll. But this is absurd. Instead of attempting such a definition I shall replace the question by another, which is closely related to it and is expressed in relatively unambiguous words.
The new form of the problem can be described in terms of a game which we call the ‘imitation game’.”[6]
Al gioco partecipano tre persone, l’Interrogante e due persone (un uomo A ed una donna B) che rispondono. Scopo dell’interrogante è indovinare il genere
Ei su di fragil barca Il mar che frange, varca;
Ei la Terra, fra' divi esimia diva, Altrice inesaurita, Col rivoltar dell'aratrice stiva Ogni nov'anno attrita.
Ibid, vv. 448-454
delle due persone basandosi sulle risposte ottenute; fin qui è un affare tra uomini (e donne), non ci sono computer coinvolti, e l’interrogante accumula una certa percentuale di successo nel suo indovinare.
Quello che si chiede Turing è se la sostituzione dell’uomo A con una macchina avrebbe o meno un impatto sulla percentuale di successo dell’interrogante nell’indovinare chi è uomo e chi è donna. Non c’è dunque nessun “test” per la macchina, cui non si chiede di indovinare risposte ma piuttosto di riuscire ad “ingannare” l’interrogante. Novello cavallo di Troia, il computer-macchina deve penetrare le mura del Pensiero umano con l’astuzia, non con la precisione delle sue risposte. La novità sta nel fatto che invece delle leggi della Natura qui l’inganno dell’ingegnum è rivolto a sé stesso, l’intelligenza si studia riflessivamente con la stessa metodologia (l’astuzia) che la definisce nel suo stare davanti alla Natura.
Ia come filosofia
Tutto questo non è riducibile ad un problema ingegneristico o financo scientifico. Leggere la domanda di Turing in termini tecnici equivale a domandarsi (anzi a postulare) che il pensiero sia una attività, riconducibile ad un funzionamento meccanico, la cui validità può solo essere misurata con un test.
Questo approccio è semplice, intuitivo, si riallaccia alla tradizione di pensiero che va da George Boole a John McCarthy passando per Claude Shannon e tutta la IA “logica”. La domanda filosofica “può una macchina pensare?” diventa la domanda ingegneristica “può il pensiero essere meccanizzato?” Il pensiero viene ridotto ad una serie di “facoltà” più o meno operative; e più profondamente, la realtà è postulata come materia e nient’altro (di qui gli sforzi della Filosofia della Mente per spiegare come possa la coscienza “sorgere” dal cervello) e l’IA diventa il banco di prova sperimentale delle varie teorie (neurofisiologica, binaria) che tentano di spiegare il meccanismo in base al quale la mente “funziona”.
Ma questa semplicità non basta. La mente non “funziona”, il Pensiero ha un rapporto originario con l’Essere che solo dal punto di vista filosofico si può esplorare. E pur restando una attività tecnica e di ricerca, l’Intelligenza Artificiale ha bisogno di questo punto di vista per realizzare i propri scopi. Dunque, quod erat demostrandum, l’Intelligenza Artificiale è “continuazione della Filosofia con altri mezzi.”
Giovanni Landi è autre del libro: Intelligenza Artificiale come Filosofia
Note
[1] GIOVANNI LANDI, L’Intelligenza Artificiale come Filosofia, Trento, Tangram Edizioni Scientifiche, 2020, p.16
[2] GIOVANNI LANDI, “La resistibile ascesa delle Scenze Cognitive” e “Philosophy of Mind, Mind of Philosophy” in www.intelligenzaartificialecomefilosofia.com, pubblicazione autonoma, 2020. 3 Sulla “ingenuità” di Turing rimandiamo all’eccellente lavoro di Gariele Lolli “Turing e il coraggio dell’ingenuità” in “L’eredità di Alan Turing”, Edizioni Albo Versorio, Milano, 2005, pag. 23
[3] SOFOCLE, “Antigone”, vv. 454-457
[4] Molte v'ha grandi cose, Ma più dell'uom nessuna. Fra l'onde fragorose Per vento e per fortuna
[5] Segnaliamo qui il nostro debito all’eccellente analisi dell’argomento fatta da Francesco Bianchini in “Le trasformazioni del test di Turing da Cartesio a Leibniz”, in “Discipline” Anno XVII, numero 1, Quodlibet, Macerata, 2007
[6] A.M.Turing, “Computer Machinery and Intelligence”, Mind 49, 1950.