Probabilmente, ancora fino a Platone, i termini non sono contrapposti. Per Platone, infatti, la razionalità non è in grado da sola di portare alla verità: “nessuno che sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali ottiene il dono di una divinazione ispirata dal dio e quindi veritiera, ma bisogna che le capacità della sua intelligenza siano obnubilate da sonno, oppure a causa di una malattia, o travolte dalla possessione di un dio. Tuttavia, spetta solo a chi è nel pieno possesso della sua intelligenza afferrare con il pensiero e ricordare le cose dette in sogno o nella veglia sotto l’influsso della natura divinatrice ed entusiastica e discernere con il ragionamento tutte quante le immagini apparse, per ricercare che cosa esse significhino.” (Timeo). Richiamandoci al significato dato al termine da Parmenide, potremmo dire che, nel mythos, prevale la presenza della divinità che prende possesso del poeta, nel logos è dominante il discorso razionale umano che tenta di decifrare l’indicibile. Ciò spiega perché il messaggio del mito sia più oscuro, ma anche più ricco, in grado di rappresentare meglio, attraverso immagini, lo stato di profonda inquietudine dell’uomo di fronte all’enigma di una realtà mai interamente spiegabile attraverso una teoria scientifica o filosofica. Ma è altrettanto vero che, senza il logos, non saremmo in grado di interpretare i segni, le tracce registrate nell’anima.
Con Aristotele, i termini mythos e logos iniziano ad avere un significato profondamente diverso e a contrapporsi: sinonimo di irrazionale, il primo; di razionale, il secondo. Aristotele, infatti, attribuisce un enorme rilievo alla logica, al discorso razionale rispondente ai principi di identità e di non contraddizione e studia le forme del procedimento deduttivo. Lo sviluppo del pensiero filosofico e il trionfo della scienza sono indubbiamente legati, nella storia della cultura occidentale, alla razionalità, all’esprit de géometrie, come lo definisce Pascal.
La logica lineare e causale ha permesso lo sviluppo tecnologico e la grande avventura industriale. La trasformazione del mondo operata dalla tecnica ha migliorato le nostre condizioni di vita e ha attivato risorse inimmaginabili, ma i nostri disagi profondi e il degrado ambientale provengono in larga misura dalla stessa tecnica che ha generato il cambiamento. La doppia valenza della tecnica era stata intuita nella Grecia antica ed era stata rivelata attraverso il mito di Prometeo: la téchne rende l’uomo capace di dominare la natura, ma anche di annientarla, perché il suo potere, se non trova limiti, diventa distruttivo.
Oggi, a distanza di tanti secoli, ci troviamo, per la prima volta nella storia, in questa condizione: quello che sarà della natura e dell’uomo dipenderà, non più dall’operare di leggi immutabili, indipendenti dall’azione umana, ma dalle scelte che l’umanità sarà in grado di fare. Non possiamo, però, pensare di risolvere i problemi utilizzando la stessa logica che li ha prodotti, logica in cui conta essenzialmente il risultato, non il processo. La vita è un processo, non un risultato. Di quale cultura abbiamo bisogno per essere in grado di controllare i rischi? La cultura della società industriale ci tramette un’idea fortemente strumentale non soltanto della produzione, ma anche della natura e della stessa persona umana, che acquista valore sulla base della prestazione fornita: la logica della macchina viene applicata alla società e all’uomo. Anche il tempo risulta spersonalizzato e, per mezzo di uno strumento, viene misurato in istanti tutti eguali. Ma il nostro mondo interiore, la sfera delle emozioni e della memoria non è regolato dall’orologio; è ancorato, invece, a una idea della temporalità antica, quella dei ritmi naturali, del cambiamento ciclico delle stagioni, dell’eterno ritorno dell’identico. L’immagine antica della circolarità è stata sostituita nell’epoca moderna dalla linea, in cui tutti i punti sono identici e tendono verso una accumulazione che significa valorizzazione, progresso. La crisi del concetto di progresso, però, rischia, oggi, di togliere senso al tempo. I segnali in questa direzione sono chiari: i giovani sono sempre meno legati al passato e sempre più incerti rispetto al futuro.
il nostro mondo interiore, la sfera delle emozioni e della memoria non è regolato dall’orologio
All’inizio del ‘900, la teoria della relatività e la psicoanalisi hanno aperto alla mente orizzonti nuovi. La psicoanalisi, assumendo l’inconscio come punto di vista dal quale esaminare l’uomo, ha privilegiato un campo che, nella tradizione millenaria della nostra cultura, è sempre stato inteso come negativo. La scoperta dell’inconscio ha permesso di avvicinarsi a un mondo, quello del sogno, in cui non agiscono le leggi della logica, che lavora attraverso immagini e che produce immagini. I sogni hanno una profonda affinità con i miti e, come i miti, si offrono a una pluralità di interpretazioni che sono necessarie, ma, nello stesso tempo, sempre limitanti; pensare di poter razionalizzare l’inconscio è assurdo perché l’inconscio è la vita. Nel mondo greco, il mito rappresentava il materiale narrativo della tragedia, esperienza politico-religiosa a cui partecipava l’intera comunità e che interrompeva il ritmo abituale di vita, collocandosi in un tempo sospeso. Attraverso l’eroe tragico, posto di fronte in situazione limite a scelte estreme, il popolo riconosceva il proprio mondo interiore e vi attingeva. Ciò consentiva una liberazione collettiva di problematiche individuali profonde e una espansione della creatività. In una cultura, come quella occidentale, che ha perso il contatto con i rituali collettivi e ha esaltato l’individualità, il riconoscimento di problematiche profonde può avvenire solo attraverso un lento e difficile percorso individuale.
Non siamo ancora in grado di stabilire che cosa accada nella mente quando si elaborano nuove teorie, possiamo però affermare che il peso dell’intuizione e dell’immaginazione siano enormi. Illuminante ed esemplare è, a questo riguardo, la storia del serpentello di Kekulé. Il celebre chimico tedesco cercava una soluzione a un problema scientifico, la struttura della molecola del benzene, attraverso tentativi di associazione mentale con le strutture delle molecole conosciute. Le sue ricerche, però, risultavano vane. In sogno gli giunse la soluzione del problema: un serpentello rincorreva la propria coda fino ad afferrarla e morderla. Kekuké intuì che la molecola avrebbe potuto avere una struttura non lineare ma circolare, e la sua scoperta rivoluzionò la chimica degli idrocarburi ciclici. Anche Einstein attribuiva, nel campo della ricerca scientifica, enorme rilievo all’immaginazione, ed egli stesso, in una lettera, rivela che “mi è calata dentro, chissà come l’idea dell’equivalenza di gravità e accelerazione che è alla base della relatività”. In conclusione, il salto che opera la creatività, il passaggio da una zona d’ombra alla luce, non avviene attraverso la logica lineare, anche se poi è la razionalità che dà definizioni e chiarezza. L’esaltazione dell’immaginazione può apparire paradossale in un’epoca, come la nostra, definita civiltà dell’immagine. Oggi, però, lo stesso mondo delle immagini è quasi sempre al servizio di una razionalità diretta allo scopo, a orientare i consumi.
La teoria della relatività e la teoria dei quanti hanno, nel secolo ventesimo messo in discussione il modello meccanico riferito alla natura. Se la prima rivoluzione scientifica aveva condotto, per dirla con una efficace espressione di Koyrè, “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, oggi, dopo tre secoli di cultura del macchinismo, sappiamo che il mondo a cui dobbiamo riferirci è un organismo complesso con interazioni continue, per cui, anche un cambiamento microscopico all’ingresso può generare una deviazione di grande portata in uscita. Alla certezza della precisione, bisogna supplire con la ricerca della stabilità; alla illusione di una crescita infinita delle risorse, occorre sostituire la consapevolezza del limite. Anche nel campo della biologia, è necessario diventare consapevoli che la vita è costituita da un rapporto dinamico e variabile tra plasticità e organizzazione e che gli esseri viventi, pur interagendo, devono considerare i limiti stabiliti dall’equilibrio complessivo. Nella nostra esperienza quotidiana, però, il modello meccanico trionfa ancora e viene applicato ai campi più diversi. É sempre più urgente, invece, che da una razionalità fondata sulla prestazione e sulla ricerca del risultato a ogni costo e da una cultura settoriale e specialistica, si passi ad una logica in cui conti il processo e non il risultato e in cui ci siano la capacità di cogliere nessi imprevisti e la consapevolezza della complessità e interdipendenza dei fenomeni.