Go down

Nell’era moderna viviamo tutti una condizione aleatoria, percepita come mutevole e densa di pericoli. Ci invita a provare a evitare il pericolo, oppure a fare ritorno al più presto a un luogo sicuro, meglio se sulla terraferma. È pur sempre possibile sfidare i limiti come fece Ulisse, oppure ritenersi imbarcati, una scelta che non vuole evitare il rischio ma lo accetta, nella forma di sfida, di scommessa con sé e con il mondo. Come sosteneva Pascal noi si sta sempre in mare aperto, non si può stare fuori dal gioco, non ci si può limitare a contemplare la sofferenza altrui ma ci si lascia coinvolgere, si passa all’azione.

 “Oh quale maggiore piacere può esservi che, toccata la terraferma e sotto un tetto, udire con i sensi assopiti cadere fitta la pioggia?” – Sofocle

“È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque, guardare dalla terra il naufragio lontano; non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere, ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.)” – Lucrezio

"Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! […]  e non esiste più ‘terra’ alcuna!". Nietzsche

La metafora del “naufragio con spettatore”

Una delle metafore su cui amano cimentarsi i filosofi è quella del “naufragio con spettatore”. È tratta dal secondo libro del De Rerum Natura di Lucrezio, racconta di spettatori a distanza di sicurezza e che per questo godono di un piacere oscuro. Spettatori autocompiaciuti e indifferenti alle difficoltà e alle sofferenze di altri, che raccontano a sé stessi di sentirsi al sicuro, perché poggiano i loro piedi sulla riva del mare, mentre stanno assistendo al naufragio e al disastro che avviene, più o meno lontano, davanti ai loro occhi pensando che “il mare è sempre stato sospetto”. Nei nostri tempi cattivi, nichilisti e pornografici la metafora del naufragio con spettatore è declinabile nell’immaginare spettatori che sulla spiaggia si raccolgono per vedere naufragare i migranti, senza intervenire per salvarli perché li considerano indesiderati, dei barbari nemici in pericoloso avvicinamento (“mamma li turchi”). 

Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. – Confucio 

Una metafora rovesciata

La metafora potrebbe oggi essere interpretata, con uno slittamento di senso, come sorte comune, perché tutti in realtà stiamo naufragando. Nessuno di noi è realmente sulla riva, al sicuro, tutti partecipiamo allo spettacolo mediatico che ci colloca sulla terraferma. In realtà viviamo dentro realtà virtuali che del naufragio ci danno una immagine edulcorata, falsa.  Siamo portati a dimenticare che in realtà siamo già tutti dei naufraghi angosciati, dentro un’insicurezza che attanaglia tutti, a dispetto delle narrazioni ottimiste e rassicuranti degli innumerevoli sacerdoti e filosofi pop dell’ideologia, religione pagana, del progresso e del neoliberismo, alla quale siamo tutti chiamati a convertirci, a omologarci, pena l’esclusione, la scomunica e l’ostracismo. Una ideologia turbo-liberale e tecnocratica come quella oggi dominante non ammette critiche, meglio adeguarsi, per non urtare le “vestali” sempre pronte a difendere il “fuoco sacro” a cui sono dedite ed asservite. 

Nonostante il solido muro del conformismo e delle sue narrazioni, nessuno si sente più al sicuro, di esserlo nessuno ci crede davvero. La tempesta è diventata l’habitat di tutti gli abitanti della Terra, capace come tale di determinare le tavole del fato e del destino di molti (il richiamo è alla mitologia mesopotamica e a Enlil, il Dio della tempesta e della Terra), determinando chi vivrà e chi morirà, chi prospererà e chi fallirà.  

La metafora potrebbe anche essere rovesciata (“Come è bello guardare la terra dal mare, impegnati nel navigare”) operando una «rivoluzione copernicana» forse necessaria. Il naufragio non sarebbe quello che appare in mare, ma quello di tutti coloro che stanno con i piedi piantati su una terra sempre più vacillante, scossa da eventi atmosferici imprevedibili e catastrofici, attraversata da pulsioni di morte, in fuga da sé stessi, in costante sfarinamento anche cognitivo, dentro un’umanità sofferente e in perenne crisi. Il naufragio, la tempesta sono già qui, vengono dal passato, ad esso sono stati inchiodati dalle nostre (non) scelte, dai nostri comportamenti e dalle nostre abitudini, dal nostro scarso coraggio a interrogarci su noi stessi e sulla realtà, dalla nostra incapacità a dotarsi di strumenti (lenti) utili a comprendere e a navigare dentro la complessità del mondo, dalla responsabilità di non essersi assunte le responsabilità necessarie a sostenere e guidare impegno e azioni. 

Il rovesciamento metaforico porta a sostenere che a guardare il “vero” disastro e a fare da spettatori siano coloro che, essendo saliti su una nave (“un’arca?”, metafora utile per una nuova futura riflessione), stanno navigando al largo. Sanno di poter naufragare perché il mare è imprevedibile e potenzialmente sempre in tempesta, ma con la consapevolezza che “muoversi” (“via-andare”), galleggiare (stare a galla), sia forse l’unica cosa da fare. Una scelta certamente un po’ folle, ma frutto di una saggia follia. Una scelta individuale, libera e consapevole, fatta non da soli, ma con molti altri, ricca di senso perché si smette di discutere sulla salvezza e si sceglie (“si fa e non si trova”) di provare a realizzarla. Una scelta pur sempre utile, per affrontare l’insicurezza che ha preso possesso delle esistenze di tutti, nella consapevolezza che peregrinare, anche per mare, sia un modo per sperimentare sé stessi e per meditare sulla propria posizione nel mondo, cosa di cui tutti hanno oggi un gran bisogno. Quantomeno per trovare una risposta al malessere e alla sofferenza che covano nel loro animo. 

La follia dell’andar per mare

Bisogna essere dei folli ad andar per mare in tempi tempestosi, ma si è folli anche quando, dal proprio comodo divano si osservano le peregrinazioni e le morti in mare di una miriade di esseri umani (migliaia i morti nel Mar Mediterraneo, ma ci sono anche quelli negli altri mari della Terra) che accettano con coraggio il rischio di morire, solo per poter in realtà tornare a vivere. Guardare fintamente ipnotizzati dallo schermo ma distratti, forse disturbati dalle loro immagini, percepire le disgrazie altrui dal salotto caldo di casa, dentro il confine limitato dello schermo, anche se crea l’illusione di scansarle, non può rasserenare. Ci suggerisce di lasciarsi prendere dall’inquietudine, di allargare lo sguardo al di fuori dello schermo, di guardarsi dentro, attorno, attraverso le finestre di casa, ci invita a riflettere su quanto anche noi “siamo tutti coinvolti” e non “possiamo essere assolti”, perché anche noi stiamo naufragando, pur rimanendo sulla “nostra solida” terraferma.


Il confine tra la mia vita e la morte altrui
passa dal divanetto di fronte alla tv,
pio litorale dove si riceve
il pane dell’orrore quotidiano.
Davanti all’ingiustizia che sublime
ci ha tratti in salvo per farci contemplare
il naufragio da terra,
essere giusti rappresenta
appena la minima moneta
di decenza da versare a noi stessi,
mendicanti di senso,
e al dio che impunemente
ci ha fatto accomodare sulla riva,
dal lato giusto del televisore.

Valerio Magrelli (Didascalie per la lettura di un giornale pubblicato da Einaudi, 1999, ma originalmente uscite per i tipi di Avagliano con il titolo Confini.)

Il naufragio di cui parlo qui non è reale ma metaforico, eppure ha la stessa valenza e potenza, racconta la realtà che viviamo. È diventato realtà da quando ci siamo passivamente adeguati al dominio del capitale finanziario (oggi anche oligarchico e plutocratico) che ha preso il controllo del mondo, da quando abbiamo regalato il nostro essere e le nostre esistenze alla tecnologia, espressione di un (tecno)potere ormai globalizzato che agisce sul piano economico, politico e sociale (tutti consumatori e utenti di piattaforme), ma anche psicologico, cognitivo e culturale. Il naufragio è qui da me usato come metafora del rischio associato all’andar per mare, un andare sempre ricco di avventura, alla scoperta del non conosciuto e di esplorazione dell’oscuro, proprio per questo pieno di pericoli, ma anche di “auto-scoperta e auto-appropriazione” di una nuova coscienza (consapevolezza), di accrescimento personale e spirituale, di una nuova condizione di conoscenza, anche poetica del mondo. Non si tratta di allontanarsi e di separarsi dalla terra e dal mondo. La terra ce la si porta sempre appresso. Il desiderio di lontananza non è una fuga e neppure un rifiuto, è un distaccarsi dalla riva, metaforico e narrativo ma non sociale, che crea cambiamento, è utile per contribuire al ricomponimento di tutto ciò che oggi sembra sconnesso, privato di significato, senza senso. 

«La vita in questo mondo è come un mare in tempesta attraverso il quale dobbiamo guidare la nostra nave ino al porto» - S. Agostino

Siamo tutti in trappola

Dentro questo mondo siamo tutti da tempo intrappolati (per alcuni lo siamo da sempre ma questo non consola), in primo lugo dai nostri comportamenti complici, inconsapevoli e servili, poi dal linguaggio e dal potere delle immagini (delle visualizzazioni).

Il potere è così grande e pervasivo, oggi anche violento, da distrarci in continuazione, da impedirci di discernere il vero dal falso, da renderci difficile comprendere la realtà della realtà, da lasciarci irretire dalle narrazioni e dalle forme conformistiche nelle quali esse sono oggi espresse e comunicate. Siamo quotidianamente esposti a messaggi, notizie, eventi che ci raccontano semplificandola una realtà sempre più complicata, lasciandoci insensibili alle grida di allarme di coloro che cercano di richiamare l’attenzione su ciò che (non) sta succedendo (“In Italia non cambia mai niente”) e ai quali non crediamo, perché li percepiamo come catastrofisti, apocalittici, pessimisti, persone fuori dal coro. Ai loro richiami reagiamo come reagiva il pubblico, protagonista del libro Aut-Aut (Enter-Eller) di Kierkegaard, che dentro un teatro nel quale è scoppiato un incendio dietro al palcoscenico, alla persona vestita da clown che chiedeva di lasciare la sala per salvarsi non credeva, pensando si trattasse di uno scherzo. Un po’ quello che sta oggi succedendo con la crisi climatica, la clownerie del green washing ci porta a non fare nulla, a rimanere fermi, a non credere alle “verità” che ci vengono raccontate, a non prenderci sul serio. Los Angeles (il mondo) va a fuoco ma l’umanità fa da spettatrice, lo si racconta su X.

Lo stare fermi è originato dalla difficoltà, per alcuni dall’ignavia e dalla stupidità, a comprendere che il mondo reale ci chiama oggi a ad avere cura, a prestare attenzione a problemi quali il surriscaldamento della terra, alla velocità e alla violenza dei cambiamenti climatici, ma anche alla guerra, alla crescente sofferenza, alle disuguaglianze e alla povertà, a tante realtà che incidono profondamente nell’esistenza di ognuno e delle quali sembra che non si abbia alcuna contezza e consapevolezza.

Guardiamo tutto da lontano, come se non ci coinvolgesse, senza alcuna consapevolezza, da semplici spettatori, come quelli richiamati all’inizio di questo testo che non sentono alcuna spinta etica e/o morale a intervenire per salvare i naufraghi dalle onde. Siamo però tutti chiamati a volgere lo sguardo altrove rispetto alle finestre-schermo dentro cui lo abbiamo relegato, per rivolgerlo alle tante macerie che crescono intorno a noi, e a farlo proprio mentre siamo intenti a spippolare e a interrogare ChatGPT sul futuro che ci aspetta.

Ricalibrare lo sguardo individuale non è sufficiente, è necessario che molti lo facciano, tante persone di buona volontà che scoprono di poter fare la differenza operando insieme, nella convinzione che solo mettendosi in viaggio insieme (con la STULTIFERANAVIS ad esempio?) sia possibile tornare a vivere, in un’epoca che sembra non avere più alcuna rotta e destinazione salvifica da proporre, nessun porto a cui far approdare e ancorare l’imbarcazione sulla quale si sta navigando. Non ci sono più ideologie o religioni a cui aggrapparsi, anche la filosofia non è più in grado di offrire àncore di salvezza, i filosofi ancora meno, quelli Pop per nulla, le mappe dentro cui annaspiamo, per lo più regalateci da Google Maps et similia, hanno sostituito i territori che abitiamo e dai quali tendiamo con ogni forza e mezzo a scappare.

Aggrapparsi a una “tavola”

Se il mare è in tempesta, se la terraferma è terremotata da nubifragi, alluvioni, incendi e terremoti, se noi stessi ci sentiamo già a mollo, se le “navi” a disposizione sembrano non reggere più, non ci rimane che aggrapparci a una “tavola”, una umile “navicella”, metafora e punto di partenza per la costruzione di una nave più robusta, fatta di tante tavole racclte in mare, ma comunque in grado di stare a galla, una nave realizzata a partire da quelle mille “tavole”, che hanno permesso a molti naufraghi di sopravvivere e di sperare di tornare a vivere (“farci una nave con i resti del naufragio” dal libro Naufragio con spettatore di Hans Blumernberg.

La “tavola” può essere metafora di tutto ciò che oggi serve per costruire una nave, una specie di Arca (qui denominata Stultifera Navis o Nave dei folli) di inizio terzo millennio, nella quale chiamare a salire a bordo, a collaborare, persone dalle conoscenze più varie e diverse, disponibili a navigare dentro conoscenze e saperi transdisciplinari, scientifici, filosofici e umanistici, nel tentativo di vincere la deriva a cui la navigazione del mondo sembra essere destinata, con l’obiettivo condiviso di esplorare nuovi percorsi e di dare una direzione, una motivazione, un destino e una finalità al viaggio.

Un viaggio intrapreso nella consapevolezza che non si possa semplicemente “stare a guardare” (la voluttà con cui lo si fa è “voluptè maligne” direbbe Montaigne), che il viaggio non è individuale, non si fa da soli, ma sempre insieme ad altri, perché si sta nella stessa barca con altre persone con cui si condivide, emotivamente ed empaticamente, da protagonisti, un viaggio fatto di consapevolezza e speranza, perché non si tratta di sopravvivere, ma di salvarsi insieme. Come scriveva Blaise Pascal “Siamo tutti a bordo di una nave”, la navigazione diventa allora semplice metafora di una vita da vivere con impegno, mettendosi in gioco, soffrendo e sperando, perché non ci sono più approdi e porti sicuri, nella fratellanza, insieme ad altri. Nella consapevolezza che è sparita ogni differenza tra terra e mare: si aprono abissi, crepe, baratri, crisi emergenti ovunque, facendo vacillare la terra e il mare ma anche ogni certezza.

Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle, e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! […] Anche la terra della morale è rotonda! C'è ancora un altro mondo da scoprire: e più d'uno! Via sulle navi, filosofi!”.  – Nietsche

Il folle che, ritenendosi saggio, si è imbarcato sulla Stultifera Navis non è “colui che sa sottrarsi al gioco di vita e morte della natura ostentando la propria serenità e imperturbabilità” (un richiamo a Epicuro), limitandosi a contemplare quello che succede. È un folle, in carne e ossa, legato al suo vissuto e alle sue esperienze che ne caratterizzano la personalità e l’agire. Un folle/saggio che si sente “imbarcato” (“Vous êtes embarqué”), consapevole che il viaggio può essere incerto e pericoloso e per questo richiedere coraggio. Il sentirsi imbarcato è sinonimo del sentirsi (ri)chiamato all’impegno, a uscire dall’inerzia, a non accontentarsi, ad accettare le molteplici sfide che un viaggio di questo tipo comporta. 

La prima sfida da affrontare parte dal riconoscere la propria vulnerabilità e precarietà, lasciare alle spalle l’illusione del progresso continuo e delle sue innumerevoli chimere.

La seconda è di accettare che il viaggio debba essere fatto con altri, fluttuanti e vacillanti e da tempo incapaci come tutti noi di trovare un assetto stabile e una base solda dentro la quale sentirsi sicuri.

La terza sfida è intellettuale perché mai come oggi abbiamo bisogno di pensiero critico e problematico, di capacità di ricercare, indagare e dialogare. Abbiamo bisogno di pensiero altro dal presumere di sapere, di un “pensiero che pensa più di quanto pensi” (Lèvinas). L’urgenza nasce dal fatto che non si trovano più punti di vista privilegiati, non esistono più punti fermi, ci si trova a dubitare delle proprie certezze, non ci sono grandi narrazioni o teorie a cui aggrapparsi, si è portati a non credere più in nulla, tutto sembra evaporato dentro sabbie mobili o buchi neri che agglutinano qualsiasi spalancando abissi nei quali sembra non ci sia alternativa possibile al precipitarvi dentro.

La quarta sfida è spirituale, trascendentale, unico modo per liberarsi dall’artificialità della vita a cui ci siamo condannati, dalla superficialità dei linguaggi e dei riti pagani a cui ci siamo servilmente piegati, dal nichilismo (“nichilismo pornografico” lo chiama Stefano Davide Bettera) che ci ha imprigionati dentro una vita angosciata e votata “a una pulsione di morte”.

La quinta sfida è prendersi cura, nella consapevolezza etica che siamo immersi nella sofferenza e che dobbiamo abbracciare i sofferenti offrendo loro delle risposte prima ancora che delle cure.

La sesta sfida è la più difficile, comporta lo schierarsi contro le narrazioni dominanti fondate sul progresso, sull’innovazione, sul cambiamento continuo, sull’evoluzione, sul presente che si dimentica del passato e assorbe in sé ogni futuro, sul mercato e le sue “leggi”, sulla cultura “woke” e su qualsiasi cosa essa voglia dire, sulla libertà intesa come “libertà di fare quello che si vuole”. 

Rivendicare la libertà significa difenderla dall’impero del ralativo, dalla superficialità fluida, dai costumi che trovano il tempo di un mattino” (Stefano Davide Bettera, Pag.63) 

Alcune note conclusive, non esaustive

Il naufragio che siamo chiamati a sfidare vale per la terra e vale per il mare. In mare l’essere su una nave rende il naufragio sempre possibile ma forse oggi più “gestibile”.  Razionalità vorrebbe che ci si ancorasse alla terra, possibilmente ad alta quota, per stare lontani dai moti ondosi degli Tsunami in avvicinamento. È una razionalità teorica, ideologica, retorica e narrativa sbagliata (“anche le montagne franano e sono alluvionate”) che ci può indurre in errore. 

All’ossessione della terra e del luogo si può reagire, intenzionalmente e relazionalmente, con l’erranza, metafora potente dell’esistenza, paradigma metaforico dello spirito umano. È una scelta considerata irrazionale, folle, fuori dai canoni stabiliti dalla norma e dal senso comune, in realtà è sempre più una necessità. L’erranza a cui qui faccio riferimento non è il navigare a scopo di conquista, non è quella dell’avido ed eroico Ulisse, non è quella egoiatrica e nichilista dei molti che oggi celebrano la libertà sul mondo e sugli altri e il progresso come uniche vie salvifiche. È una erranza ospitale, solidale, che si fa con altri nomadi, erranti, viaggiatori, esseri umani in carne e ossa, con i quali condividere l’angoscia, lo scompiglio, l’inquietudine, l’assenza di risposte appaganti, per il viaggio intrapreso. In viaggio, da erranti, ci si confronta con il mondo ma soprattutto con sé stessi e con gli altri che sono saliti a bordo di una nave, metafora forte di salvezza e forse anche di redenzione.


Bibliografia

  1. Bodei Remo, "Introduzione", in H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. X-XXIV.
  2. Bodei Remo, "Distanza di sicurezza", in H. Blumenberg, Naufragio con spettatore: paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna, Il Mulino.
  3. Blumenberg Hans, Schiffbruch mit Zuschauer: Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt am Main, Suhrkamp; trad. it. Naufragio con spettatore: paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna, Il Mulino, 1985
  4. Paolo Rigo, La metafora nautica e la “traditio” nel Novecento
  5. Stefano Davide Bettera, Critica dell’ideologia liberal progressista, Solferino, Milano 2024
  6. Emmanuel Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità Jaca Book, 1961

StultiferaBiblio

Pubblicato il 27 gennaio 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – STULTIFERANAVIS Co-fondatore

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