Oggi mi sono svegliato con un pensiero che non riesco a scrollarmi di dosso. Forse non è nulla di nuovo, forse è solo il solito nodo in gola che a volte torna a farsi sentire. Ma ci provo comunque a scriverlo, come fosse una pagina di diario.
L’arte vera – quella che non si può spiegare tutta con le parole – nasce da dentro, da un dolore, da un dubbio, da una voglia di lasciare un segno. Non è decorazione, non è intrattenimento. È qualcuno che ha sentito qualcosa di troppo grande per tenerlo solo per sé, e ha deciso di lasciarlo lì, su una tela, su un foglio, in una canzone. Come ha fatto Munch con il suo urlo. Non lo ha urlato per farsi notare, ma perché non poteva farne a meno.
In un tempo come quello in cui viviamo adesso, tutto corre. Il sapere è sparso ovunque, ma spesso ci passa accanto senza fermarsi. Sembra quasi che più abbiamo accesso alle informazioni, meno riusciamo a capirci qualcosa davvero. Siamo circondati da conoscenza, ma è come se avessimo perso la capacità di starci dentro, di farci delle domande vere.
Prima, forse, c’era più silenzio. Più momenti per ascoltare quello che avevamo dentro. Oggi sembra che ci sia sempre qualcosa da fare, da aggiornare, da condividere. E chi riesce a usare bene tutta questa tecnologia viene considerato intelligente, efficiente. Ma a me viene il dubbio: siamo ancora noi a usare gli strumenti, o sono gli strumenti che usano noi?
A volte penso che ogni volta che proviamo a capire qualcosa – anche solo un po’ di più – stiamo lottando contro il caos. È come mettere in ordine una stanza buia, sapendo che domani sarà di nuovo tutta sottosopra. Ma lo facciamo lo stesso, perché in mezzo a quel piccolo ordine troviamo un senso. È come cercare di mettere insieme i pezzi di un puzzle che non ha mai fine. Ed è lì che, forse, sta il bello: nel non smettere di cercare.
Forse è questo che ci rende umani. Non il fatto di sapere tutto, ma il fatto di voler capire. Anche quando sembra inutile. Anche quando ci sentiamo soli. Anche quando il mondo va troppo veloce.