Go down

Si può raccontare un progetto (iniziativa, la parola giusta per definirlo) come quello della 𝐒𝐓𝐔𝐋𝐓𝐈𝐅𝐄𝐑𝐀𝐍𝐀𝐕𝐈𝐒 in molti modi. Per me è un punto di arrivo, non ultimo spero, di un lavoro di riflessione critica sulla tecnologia iniziato nei primi anni 2000 e proseguito fin qui attraverso la pubblicazione di ventidue libri centrati su temi principalmente tecnologici e filosofici.


Riflettere sulla tecnologia significa farlo sulla realtà di un mondo globalizzato dominato da meccanismi tecno-capitalisti e tecno-neoliberisti che stanno ridisegnando, con i loro rapporti di forza e di produzione, le economie del mondo e le relazioni geopolitiche di potere sulla Terra. Stanno determinando disuguaglianze, precarietà, nuove forme di povertà e forme pervasive di controllo. Condizionano i comportamenti delle persone, modulandone i loro desideri e determinando le loro narrazioni. Modificano il loro rapporto relazionale con gli altri e con la realtà. Generano forme di governo illiberali, autoritarie e riduzioniste, in mano a élite sempre più ristrette, più ricche, più potenti e corrotte, che sembrano avere cancellato la Storia e proiettarsi in scenari futuri potenzialmente distopici, da cui salvarsi (in pochi) scappando su Marte. 

Un filosofo più profondo, che prenda su di sé il compito del pensare, la fatica, a volte, del concetto, non si lascia troppo impressionare e dubita, dubita fortemente. (G. Goisis)

Di fronte a tutto questo non ci si può più limitare a guardare, non basta scuotere la testa. La riflessione non può essere solo teorica, retorica, intellettuale. Deve legarsi a una scelta individuale e personale, esistenziale, eticamente umana, che nasca dalla consapevolezza e dalla volontà di cambiare l’agenda dominante corrente. Si deve tradurre in azione[1]. L’azione deve essere declinabile in buone pratiche, utili a formalizzare e a “esercitare” un approccio diverso alla tecnologia, a decostruirne consapevolmente i linguaggi, i modelli e i codici, a svelarne gli istinti, animali e umani insieme, di dominio e di potere. Queste pratiche servono per poter adottare e sostenere forme di “resistenza” contro un potere ormai consolidato, pervasivo e diffuso[2], che ha assunto la forma di un Matrix di cui siamo diventati tutti parte e al tempo stesso complici passivi e servili: “semplici individui intenti a sfruttare a più non posso tutte le tecnologie personali disponibili e messe a loro disposizione da entità private” (Eric Sadin).  L’azione non può essere individuale (individualistica), richiede il pensare (il filosofare) insieme, “il riflettere e discutere in maniera condivisa[3] il condividere i “guadagni” speculativi e le conquiste intellettuali personali con gli altri. 

Con questo testo provo a raccontare la mia visione personale (come tale forse inadeguata e insufficiente e/o sbagliata) della realtà, di noi umani entro il mondo tecnologico odierno, di cosa si potrebbe fare oggi per costruire scenari futuri diversi perché densi di “avvenire”, meno distopici e più “umani”. Lo faccio a partire dall’iniziativa della STULTIFERANAVIS e dalle motivazioni che hanno portato alla sua ideazione e realizzazione. 

“siamo tutti come perle unite da un unico filo” - perle preziose, tutte differenti ma similissime nella loro vertiginosa sequenza; se il filo si spezza, diviene difficile ricostituire il legame perduto.” (Goisis) 

La mia visione non è solitaria e le percezioni da cui nasce non sono solo personali. Da anni numerosi studiosi e studiose del fenomeno “tecnologia”, quasi sempre filosofi (tra gli altri Eric Sadin, Miguel Benasayag, Umberto Galimberti, Byung-Chul Han, Ghunter Anders, Berabrd Stiegler, ecc.), sociologi, psicanalisti e antropologi (pochi i tecnologi), insistono nel raccontare che nessuna tecnologia è inevitabile, come vorrebbero farci credere tecnofili incalliti come Kevin Kelly[4]. Ciò a cui tutti partecipiamo e di cui siamo diventati complici, non è che il risultato finale di rapporti di forza, di negoziazioni, di conflitti, di scelte e di interessi, di preferenze e priorità, di valori e di convenienze politiche, economiche, sociali, pubbliche (politiche) e private. Tutto questo ha condizionato lo sviluppo (parola preferibile a progresso) e l’evoluzione della tecnologia attuale, sta determinando l’emergere di scenari futuri senza futuro. Il risultato poteva essere diverso, persino alternativo, lungo nuove traiettorie teoricamente possibili e percorribili. 

Introduzione 

La parola meme degli ultimi anni è stata “resilienza”, la parola su cui investire è per me “resistenza”. La prima parola è facilmente declinabile, è quasi connaturata, unitamente a “disruption”, al mondo digitale tecno-progressista che ci ha tutti ipnotizzati e assorbiti dentro un gigantesco Blob narrativo e cognitivo. La seconda parola va collocata e ridefinita dentro contesti nei quali ogni forma di resistenza, di opposizione, di critica, di contrapposizione, viene oggi assorbita, assimilata, vanificata, mediatizzata (mitridatizzata), trasformata in “content” (dati, informazioni, contenuti) e in narrazioni. 

Chi sceglieva di resistere, un tempo lo faceva con coraggio e a rischio della propria vita. Lo faceva contro qualcuno (qualcosa) che a ogni forma di resistenza o di ribellione si opponeva, facendo valere il proprio potere, anche con prepotenza, forza, brutalità e violenza. Oggi la realtà è completamente mutata, da solida e liquida che era diventata, si è evaporata. È diventata digitale, evanescente, algoritmicamente simulata, virtuale, a volte irreale. Chi oggi abbraccia la parola “resistenza” per adattarla alla realtà e praticarla, deve prima di tutto comprendere il significato di questa nuova realtà, contestualizzandola nell’era digitale e delle intelligenze artificiali che stiamo vivendo. È chiamato a declinarla nelle forme utili a rompere le tante forme di realtà e di verità simulate nelle quali la tecnologia del digitale ci ha oggi, con la nostra servile e poco critica complicità, precipitato. 

La resistenza nasce dal disagio, dalla nostalgia, dal disincanto, dalla presa di coscienza, dalla maggiore conoscenza, dalla consapevolezza e dall’assunzione di responsabilità. Si manifesta nel non volere arrendersi alle logiche e alle narrazioni dominanti, come quelle dei media odierni che si limitano a parlare di ciò di cui si parla. Non aspira a essere performativa, ma a essere leggera, sottile, lucida e distaccata, senza obiettivi apertamente dichiarati o rivoluzionari, anche se pur sempre radicali.  Mai come oggi abbiamo bisogno di pensiero e pratiche radicali. Non potrebbe essere diversamente, viviamo tempi radicali nei loro cambiamenti paradigmatici e di crisi. 

La caratteristica predominante della parola resistenza va ritrovata anche in gesti analogici, non filtrabili da algoritmi e da altri strumenti digitali come le intelligenze artificiali, si deve tradurre in gesti umani come quelli dettati dalla timidezza, dalla gentilezza, dalla generosità, dalla solidarietà e dalla collaborazione.  Deve comunque farsi “istruita”, diventare abile nell’usare gli schemi, le logiche, gli strumenti e i meccanismi del “mondo-piattaforma” e dei suoi poteri regolativi e normativi. Online resistere può portare a creare spazi isolati, autonomi, comunitari, vissuti (nel tempo) come temporaneamente liber(at)i. Dentro il mondo, ma fuori dalle tante realtà parallele, che oggi lo caratterizzano. 

Serve uno spazio autonomo, temporaneamente liberato 

Siamo tutti cognitivamente ibridati dalla tecnologia, magnetizzati dalle sue funzionalità e prestazioni, manipolati dalle sue narrazioni, condizionati dai suoi meccanismi e risultati. Non siamo più dentro una caverna ma in un acquario-mondo dal quale non abbiamo alcuna intenzione di scappare. Ci piace il dolce tepore della sua acqua elettricamente riscaldata, come dentro una culla, che ci (man)tiene sempre ben alimentati e sereni, persi in un dormiveglia sognante continuo, paragonabile a quello dentro la placenta materna che culla bambini non ancora nati. Per dirla con Jainwei Xun, viviamo ormai come ipnotizzati. Siamo mesmerizzati, sedotti e incantati (incatenati). In una parola siamo stati tutti stregati, senza neppure avere la percezione di chi siano gli stregoni o le streghe che la stregoneria hanno operato.    

Il pensiero critico viene dolcemente addormentato e la percezione viene rimodellata, strato dopo strato (Jianwei Xun)

Chi sperimenta la fuga dall’acquario o prova a ribellarsi scopre immediatamente la follia (saggezza?) del suo gesto. Il prigioniero della caverna platonica che, dopo avere sperimentato la realtà esterna, ritorna dentro la caverna, si guarda bene dal condividere la sua scoperta con gli altri prigionieri, non verrebbe creduto. L’acquario digitale odierno non ha pareti solide ma trasparenti, non si cura della curiosità dei “pesci” che lo abitano, sa che non hanno alcuna voglia di fuggire, neppure lo desiderano. Chi l’acquario gestisce non ha alcuna paura di eventuali fughe. Ogni fuga, espressione di ribellione, pensiero critico, reazione e contestazione, viene immediatamente e facilmente assorbita e usata per creare nuove forme di adattamento che porta a irrobustire il controllo e a rendere innocui coloro che hanno provato ad opporvisi. Ogni fuga viene abilmente sfruttata per celebrare le qualità e i benefici dell’acquario-mondo, rendendolo ancora più appetibile, gratificante e desiderabile. Quei pochi che tentano la fuga non metteranno mai in crisi la massa critica, rappresentata da moltitudini di soggetti-oggetti mercificati e complici (la servitù volontaria di Étienne de La Boétie) della loro stessa prigionia, che lo caratterizzano.

Chi pensa a fuggire dovrebbe in primo luogo interrogarsi sul come si possa fare, visto che l’acquario è un acquario-mondo globale e globalizzato, le sue pareti si estendono oltre l’atmosfera, abbraccia e comprende le migliaia di satelliti Starlink che, come squali, gravitano affamati intorno alla Terra. È un acquario-mondo che comprende in sé tutta la realtà percepita, si allarga oltre confini ritenuti insuperabili nel tempo e nello spazio, confini peraltro non solo fisici ma cognitivi e mentali. L’alternativa alla fuga o alla ribellione non può che essere l’elaborazione di un pensiero critico he nasce da una lucida e ferma consapevolezza, frutto di saperi e conoscenze acquisiti, utili a comprendere la propria posizione, esperienza ed esistenza nell’acquario, a decifrarne le logiche di dominio e i codici (meccanismi, funzionalità, dispositivi, strumenti, ecc.) che lo rendono così invasivo, potente, passivamente accettato e possibile. 

In una realtà occupata da piattaforme e architetture sempre in movimento, fluide nel loro costituirsi e dileguarsi, invisibili nelle loro strutture interne, realizzate con codici stranieri, sempre più complessi e ignoti (ingovernabili) persino a chi li ha originariamente scritti, flottanti su uno tsunami senza fine di narrazioni, notifiche, chiamate all’azione e all’interazione, call to action all’acquisto e al consumo, una possibile forma di reazione o di semplice resistenza è tornare a investire in qualcosa di solido, dalle fondamenta robuste, dentro un sottosuolo diverso dai campi flegrei digitali sempre in fase di bradisismo e sprofondamento. 

L’investimento da fare è ad alto rischio, il guadagno probabilmente nullo, se va bene a somma zero. Nullo lo è anche se si accetta di stare dentro le tante verità e le realtà alternative oggi dominanti, che si riverberano dentro camere di risonanza che sono qualcosa di più e di diverso delle semplici camere dell’eco, di cui molti nelle loro narrazioni online superficialmente parlano. La risonanza non è solo linguistica, comportamentale, razionale, emotiva, ma è anche cognitiva, psichica, agisce sull’inconscio, creando fenomeni e meccanismi di rinforzo che amplificano la risonanza e accelerano il suo flusso inarrestabile, rendendola mortale. 

Comprendere la realtà 

La domanda che tutti dovrebbero porsi è su come si possa fare a comprendere una realtà ormai dominata da verità alternative (percepite come plausibili) e come tali vissute come vere, da false verità e da ingannevoli narrazioni e contro-narrazioni che costruiscono e ricreano continuamente la realtà, da simulazioni costanti, da fatti ed eventi sempre meno verificabili, sia nella loro veridicità sia nella loro effettiva realtà. 

L’assuefazione, se non la vera e propria dipendenza, al mezzo tecnologico non aiuta certo a comprendere una realtà ormai dissolta e frammentata per poi riflettere criticamente su di essa. Servirebbero conoscenze, ma si preferisce sguazzare sereni e divertiti dentro semplici informazioni. Potrebbero aiutare alfabetizzazione, consapevolezza, azione e attività critica, ma si preferisce non conoscere e non sapere, non dare ascolto alla propria coscienza critica, accontentarsi di semplici reazioni passive, per di più suggerite dall’esterno e quindi subite. Costantemente mobilitati dentro un flusso ininterrotto di dati, eventi, notifiche, informazioni, ecc., troppo impegnati in interazioni binarie e ripetitive (multitasking perenne), si vive una situazione di frammentazione dell’attenzione e di instabilità del proprio esistere nel mondo, del proprio Sé. Si è perso il significato delle cose, il senso delle proprie scelte e azioni. 

Alimentati da sonniferi mescolati a metanfetamine e oppiacei, dentro l’acquario siamo tutti addormentati. Con gli occhi spenti e le menti (coscienze) annebbiate, viviamo privati della vera esperienza, che solo i pesci resistenti delle profondità degli oceani o del Mare Nostro, come il Morone, riescono ancora a fare. Gli occhi abulici, trasognati, spenti, non ci impediscono di alimentarci e di interagire, di sopravvivere. Viviamo una situazione nella quale siamo sempre presenti e al tempo stesso assenti, vicini agli altri ma non con essi relazionati. Coscienti ma non lucidamente presenti, sempre più agiti che agenti consapevoli di sé stessi. In questa condizione, nella quale non abbiamo più neppure la percezione del nostro corpo fisico e sensibile, trasformato in un semplice profilo digitale a cui abbiamo delegato parti fondamentali delle nostre vite, agiamo come semplici produttori di dati e di informazioni. Regalati a piattaforme tecnologiche pensate per misurare ogni nostro atto come se fossimo semplici merci, siamo diventati tante entità misurabili, computabili, come tali archiviabili, rappresentabili, plasmabili e modificabili da altri. 

Anche la nostra fisicità, il nostro corpo fisico e sensibile, lo strumento cardine della nostra esperienza soggettiva con il mondo (i neuroni non risiedono solo nel cervello), è stato svuotato da ogni autonomia, consistenza e sostanza, esistenza, trasformato e sostituito da un profilo digitale che assume vita propria, agisce da interfaccia tra noi e il mondo digitale, tra noi e gli altri. Un profilo asservito alle logiche binarie e algoritmiche delle piattaforme e abilmente trattenuto dentro conversazioni e narrazioni (de)limitate, periferiche della realtà. Lo hanno trasfigurato, codificato, mercificato, messo al servizio di chi possiede e controlla la tecnologia. Pensate a quanto sforziamo e affatichiamo questo corpo, usandolo come semplice mezzo di trasporto, di spostamento o di guida, per soddisfare algoritmi AirBnb, Uber, bisogni di shopping ed eventi TikTok. Un uso che non fa che accrescere la nostra dipendenza da profili senza corpo, senza volto e senza sguardo e impedisce di riscoprire la forza e il ruolo che il corpo ha e ha sempre avuto nel nostro stare nel mondo, con noi stessi e con gli altri, dentro le situazioni e i contesti che abitiamo. 

Se si fosse capaci di (ri)prendere il controllo della propria attenzione, se si (ri)focalizzassero sguardo e mente, se si elaborassero pensiero critico e riflessioni profonde, si potrebbe forse comprendere meglio i filtri (Eli Pariser) e le cornici mentali che ci impediscono di scoprire e comprendere la realtà nella sua essenza attuale, fondamentalmente manipolata, a partire dalla sua percezione e dalle sue narrazioni. Si potrebbe strappare via il velo di Maya[5] (Schopenhauer) odierno che nasconde la realtà delle cose ai più. Un modo per provare a rompere questo velo è prestare attenzione alle molteplici crepe che lo caratterizzano, a usarle come una soglia il cui passaggio apre a prospettive tra loro diverse, non necessariamente digitali o migliori, ma ricche di possibili(tà). Attraversare queste crepe, rompe la stagnazione e la compattezza del presente conformistico dominante, opera una fessurazione che è espressione di movimento e cambiamento. Fessurare, allargare le crepe, è il primo passo per creare altre incrinature, che poi è un modo, parafrasando il pensiero di Francòis Jullien, di “forzare gli angoli”, di “propagare attivamente le fessure interne”. Se l’operazione riuscisse le crepe potrebbero diventare un varco. 

There is a crack, a crack in everything (Leonard Cohen) 

Le crepe si presentano nella forma di interstizi brulicanti nei quali la nostra comprensione e conoscenza sono limitate dalla relazione che noi intratteniamo con gli strumenti che usiamo, tra noi e le informazioni a cui siamo perennemente esposti. La cecità nel vederle, la paura nell’attraversale, si spiega anche con il fatto che queste crepe sono spirituali, sono brecce psichiche, inquietano. Si manifestano in noi nell’incapacità a reagire alla nostra condizione umana per dare un senso alla nostra vita che un senso ha perso, per noi, da tempo, ci impediscono di usare al meglio le nostre innumerevoli energie, superando lo scoraggiamento e la stanchezza, lo smarrimento, il nichilismo e il cinismo, che ci lasciano preda della nostalgia e ci impediscono di trarne le necessarie conseguenze in termini di scelte, decisioni e azioni. 

Il dominio della tecnologia e delle sue piattaforme, oggi anche delle IA generative, ha buon gioco, agisce sulla stanchezza e sull’affanno di moltitudini angosciate dalla percezione di vivere dentro crisi ricorrenti, sistemiche e multidimensionali, che segnalano da un lato il crollo degli architravi del vecchio mondo per come lo conoscevamo (Michele Ciliberto), dall’altro la nascita di tempi nuovi, di nuovi paradigmi, di tempi alla fine dei tempi di cui non siamo in grado di anticipare le emergenze e gli scenari di avvenire. Sono tempi nei quali tutti sono chiamati a impegnarsi in scelte non facili perché nella fluidità, virtualità e artificialità del reale, è difficile essere pragmatici e concreti. Da troppo tempo vittime di illusioni, ci si è accoccolati nel presente, si è rinunciato all’innocenza e alla purezza, alla responsabilità, intesa come coscienza di sé e del proprio ruolo nel mondo. Le scelte da fare non sono confrontabili con quelle (in realtà non-scelte perché sempre più spesso delegate agli algoritmi e alle IA) a cui oggi siamo abituati, non possono che essere libere, non omologate, de-coincidenti[6] dalle narrazioni conformiste dominanti. Dovrebbero essere finalizzate a usare crepe, pertugi e passaggi vari, per liberarsi dall’addestramento coercitivo e dall’inconscio tecnologico che mira alla nostra sottomissione. 

La Srultigeranavis è per un viaggio della speranza: utile alla ricerca, a guardare avanti, a sporgersi, a vedere più lontano.

Forme di Resistenza necessarie 

Nell’era tecnologica corrente serve praticare una presenza onlife e offlife. Serve stare dentro e fuori, partecipare e sapersi allontanare, presenziare e distanziarsi, accettare in modo distaccato le regole del gioco dissimulandole, lasciarsi coinvolgere ma mantenendo sempre all’erta il proprio sentire, la propria lucidità di pensiero, osservare per comprendere, sperimentare per conoscere logiche, meccanismi e funzionalità, provocare e mettere alla prova, per verificare reazioni e strategie, frequentare le moltitudini online, per rendere possibile l’incontro con persone di qualità con cui condividere modi di pensare e percorsi futuri conversazionali e relazionali. 

Più che impegnarsi in rivolte senza storia o crociate impossibili da vincere (però lo spirito di Don Quijote de la Mancha non andrebbe abbandonato!), conviene oggi abitare (stare dentro) gli spazi e le realtà in cui siamo immersi più a lungo, per costruire una “resistenza” possibile dall’interno, investendo sulla nostra memoria e attenzione. Una resistenza che deve essere programmata, con determinazione e lucidità, perché bisogna avere consapevolezza delle molteplici tecniche utilizzate per renderci meno autonomi, meno liberi, meno capaci di reagire. Le tecniche a cui prestare attenzione, per meglio comprenderle, sono pervasive, automatizzate e personalizzate, agiscono temporalmente ma anche spazialmente, perché si vive ormai in ambienti online (onlife direbbe il filosofo). Tanti spazi virtuali (sempre meno in potenza nella loro prevedibilità) che, come tali, abbracciano l’intero spazio-mondo. Queste tecniche sono sempre attive, pensate e disegnate per non farci pensare, per rubarci tempo e attenzione, per coinvolgerci (annebbiarci) emotivamente e mentalmente, per agire sul nostro inconscio, compreso quello tecnologico di cui parla il filosofo Galimberti[7], che ci porta al così fan tutti e a rinunciare a ogni reazione critica e voglia di scappare. 

Stare dentro, non abbandonare, selezionando con cura gli spazi dove stare (che senso ha oggi stare sulla piattaforma X, che bisogno c’è di abitare Facebook?) è solo un modo per abitare una delle tante realtà parallele che oggi ci troviamo a vivere. Stare dentro però ha senso solo se si ha un luogo alternativo dove stare (bene), costruito in proprio e per questo vissuto come privato, un luogo non determinato dalle logiche e dalle finalità delle piattaforme, non sottomesso ai capricci di un algoritmo. Uno spazio pensato come temporaneamente libero (meglio non farsi eccessive illusioni di libertà!), da costruire e frequentare insieme ad altri, con i quali condividere un comune sentire, simili percezioni e sensazioni, motivazioni ed emozioni, interessi culturali e intellettuali, pratiche, visioni del mondo e valori. 

La volontà non basta 

Inutile abbandonarsi al sentimento triste della nostalgia di tempi andati, forse popolati da verità percepite allora, e oggi ricordate, come oggettive. Sbagliato lasciarsi prendere dal tecno-pessimismo che genera visioni apocalittiche e disfattiste da fine dei tempi. Illusorio credere che prima o poi ci si possa svegliare dal sonno profondo nel quale si è stati precipitati, per trovare una via di liberazione e di salvezza. 

Meglio provare a uscire dalla gabbia mentale, suggestionante, cognitiva e narrativa stesa su di noi. Si può provare a farlo cercando di rimanere sempre vigili, lucidi, capaci di una (auto)consapevolezza utile a riflettere su sé stessi, sulla propria condizione esistenziale e psichica. Meglio cimentarsi nello sviluppo di una perseverante (resistenza e perseveranza concetti preferibili a resilienza) capacità critica. Senza di essa non si potrebbero smascherare gli inganni e le illusioni in cui siamo tenuti prigionieri. Meglio investire sulla volontà di mettersi in discussione, iniziando un viaggio esistenziale e intellettuale, contribuendo alla creazione di isole o spazi autonomi di realtà (le TAZ di Hakim Bay), “comunità intenzionali”, veri e propri  NOSTRIVERSI comunitari e fatti di persone. 

La volontà serve per un esperimento di autonomia percettiva, esperienziale e narrativa che ci liberi dalla soggezione, dalla trappola cognitiva, dall’(iper)consumo e dalla mercificazione, dalla complicità e dal controllo. Un controllo che, a differenza del passato, non ha più bisogno di polizie in divisa e fisicità, ma è mentale, cognitivo, psichico e narrativo. Il messaggio dominante è che non esistano mondi virtuali e mondi reali, che non ci sia una sola verità ma tante verità (anche false) possibili, che tutte le narrazioni abbiano senso allo stesso modo, che quello che conti veramente è stare al gioco, vivere dentro il mondo artificiale costruito come se fosse l’unico mondo possibile, sapendo che al di fuori non ci sono alternative, non esiste salvezza. In pratica tutto è pensato e costruito per impedire che possano nascere spazi alternativi “temporaneamente liber(at)i”, pensati nella presunzione, forse errata ma salvifica, che non possano essere controllati, dominati, impediti. 

La volontà da sola non basta, siamo ormai troppo ibridati e protesizzati, contaminati e colonizzati a livello cognitivo, ma anche emotivo, intimo. I nostri sentimenti digitalizzati non sono che pallide simulazioni di quelli reali, un semplice rispecchiamento che lascia sempre l’amaro in bocca. Incatenati a queste simulazioni, ci lasciamo da esse plasmare, anche nel vivere le nostre emozioni. Su tutto prevale l’impronta digitale binaria degli algoritmi che si sono presi la responsabilità di guidarci. Lo fanno con il nostro tacito permesso di fornirci soluzioni e di mantenerci sempre contenti (felici), come se la cosa fosse possibile. Il tutto dentro una realtà umana che non può essere semplicemente calcolabile, misurabile e quantificabile, ma è sempre dominata dall’incertezza, dal disordine, dalle fragilità individuali, dall’insicurezza, anche collettiva, dall’ansia, dall’angoscia e dalla paura. Siamo portati a credere che le nostre emozioni siano semplici “stati” (di Facebook) da condividere, metriche da applicare alle nostre interazioni e al livello di ingaggio sperimentato online, eventi da trasformare da privati a pubblici come se il processo di trasformazione fosse sempre possibile, regole, istruzioni, norme e sistemi di controllo costruiti per (pre)determinare comportamenti, gesti, esperienze ed azioni. 

Mentalmente e cognitivamente annebbiati, emotivamente affaticati, psichicamente indeboliti, ci affacciamo alla complessità del mondo con strumenti raccontati come ottimizzati, efficienti, personalizzati, ma inservibili per affrontare l’imprevedibile, i fallimenti, le fragilità e vulnerabilità umane. Vivendo molte ore al giorno dentro realtà e mondi simulati, estetizzanti, patinati, semplificati e gratificanti, quando stacchiamo la spina ci troviamo, inadatti e in sofferenza, a muoverci dentro mondi che simulati non sono, a comprenderli nella loro dura realtà, che poi è la nostra. Così come sulle piattaforme online si è portati a coltivare l’illusione della potenza, del fare, della scelta binaria, nel mondo reale si scopre e si vive in prima persona la propria impotenza, si comprende cosa sia “la nuda vita” privata della sua patinatura digitale. Onlife le varie forme di attivismo (messaggiare, postare, narrare, interagire, condividere, ecc.) che ci fanno sentire attivi e vivi, offline non trovano un corrispettivo altrettanto potente, non si traducono in azioni concrete, capaci di coinvolgere, motivare, catturare l’attenzione e di cambiare la realtà. 

Un ruolo importante lo gioca il nostro essere diventati smemorati. Non solo perché ormai facciamo affidamento prevalentemente a memorie in cloud (sulle nuvole), database di informazioni le cui regole di archiviazione e gestione dei dati, decontestualizzati dagli ambienti nei quali viviamo, è ormai fuori dal nostro diretto controllo. I nostri ricordi, che della memoria costituiscono una parte fondamentale, sono stati trasferiti in contenitori, non nella forma di vissuto e di nostre esperienze, ma come semplici risorse manipolabili, quantificabili e algoritmicamente gestibili ed elargibili. Avendo regalato il nostro passato a supporti tecnologici elettronici, stiamo disimparando ad apprendere dalle nostre esperienze, dai contesti (le sfere le chiamerebbe il filosofo tedesco Peter Sloterdijk) nei quali si sono generate, dagli effetti che hanno determinato su di noi. Spinti come siamo a dimenticare tutto, il passato non serve più a vivere il presente, in modo da prefigurare il futuro. Il presente è diventato presentismo, è stato ristrutturato, semplificato, in modo da poter essere più facilmente gestibile. A poco servono i ricordi che continuano ad emergere dalle profondità dei nostri inconsci, dai nostri incubi e sogni. Sono ricordi resistenti ma che devono fare i conti con la nostra crescente incapacità a trarre vantaggio da essi, a sapere e volere coltivare una pratica del ricordare, vissuta come una pratica di resistenza umana. 

La resistenza è oggi tanto più necessaria quanto più si affermano sistemi di intelligenza artificiale che stanno contribuendo alla costruzione (produzione) di tante nuove realtà parallele, vivibili come se fossero tutte reali, per lo meno a chi le sta sperimentando e vivendo. Inutile cercare di convincere del contrario i molti che oggi si sono buttati a capofitto dentro le interfacce delle IA generative, che con le loro risposte e soluzioni regalano loro le informazioni che servono a produrre i mondi che desiderano. Chi ha scelto, nei confronti delle nuove tecnologie di IA, un altro approccio non può comprendere l’eccitazione di quanti hanno oggi sviluppato relazioni erotiche, qualcuno sostiene pornografiche, così coinvolgenti da non potere essere né spezzate, né interrotte o condivise. 

Come raccontare la nave in forma di atti di resistenza 

STULTIFERANAVIS  non è propriamente un progetto, non ha obiettivi dichiarati, non propone manuali d’uso o programmi, neppure manifesti da lanciare e fare sottoscrivere, non propone modelli. Presenta soltanto un modo di pensare, di fare, di (un’arte di) operare, come tale è una iniziativa culturale, politica. L’assenza di un programma indica che l’iniziativa nasce senza avere stabilito cosa si debba fare, senza un metodo, per lasciare spazio a nuove possibilità che nascano da “intelligenze fini” capaci di cogliere e rilevare la situazione. Nasce come spazio di libertà, di riflessione critica e di condivisione di un lavoro culturale che molti possono fare insieme, semplicemente salendo a bordo della “nave”, il che si traduce fondamentalmente in una partecipazione declinabile in lettura e scrittura, in scrittura e lettura. È una iniziativa, sospesa nel tempo e sulle onde, che può servire a riqualificare in modo qualitativo il nostro modo di stare online. Non avendo mete prefissate o porti di attracco predeterminati (Mikonos, Santorini, ecc.), il viaggio che la Stultifernavis sta intraprendendo è perseverante nel tempo e dilatato nello spazio, è stato pensato appositamente per riappropriarsi del tempo che ci è stato rubato dal tecno-capitalismo dell’attenzione, e per occupare lo spazio fisico che un viaggio in mare, seppure metaforico, ci permette di occupare e riconfigurare. 

Bisogna essere dei folli o dei saggi ad andar per mare in tempi tempestosi, 

La “nave” è una metafora di un viaggio, così come può esserlo una piattaforma social o una IA[8]. Le numerose piattaforme che hanno “digitalmente pavimentato” il mondo sono diventate portaerei super accessoriate e tecnologicamente super-attrezzate, efficienti e potenti, con comandi, organizzazioni e gestioni centralizzate, coerenti con le linee di comando implementate. La STULTIFERANAVIS è una semplice ed esile “navicella” dell’ingegno umano (Dante), leggera e veloce, capace di surfare le onde in modi che la grande nave non saprebbe mai fare. Non ha bisogno di porti attrezzati per fermarsi ma in questi porti non ha neppure alcuna intenzione di fermarvisi. La resistenza della sua chiglia alle onde tempestose dei mari dei nostri tempi, non dipende dalla tecnica e dalla tecnologia, ma dalle sensibilità, dalle conoscenze delle maree e del viaggiare, dalle molteplici esperienze dei naviganti, dalla consapevolezza e dalle abilità umane di chi è a bordo. Gli imbarcati sulla nave sono molti, spinti forse dal disincanto, dalla frustrazione e dalla stanchezza, dalle disillusioni, tutti effetti generati dalle promesse tecnologiche. Sono tutti impegnati a far andare avanti la nave, a renderla attrattiva e ospitale, sempre pronta ad accogliere a bordo altri passeggeri. La Stultiferanvis mira a esprimere la pluralità e le differenze di un mondo automatizzato, diventato sempre più uguale a sé stesso, un mondo dell’uguale. 

La scelta di navigare su una “navicella” è motivata dalla ricerca di autenticità (“sentirsi vulnerabili ma veri” è anche il messaggio di Papa Francesco nel suo libro autobiografico Spera), non più esperibile su piattaforme social, ormai dominate da narrazioni tutte molto simili tra loro, alle quali è richiesto di adeguarsi, invece di promuovere la ricerca della verità. Sono piattaforme sempre più orientate alla promozione di prodotti e alla comunicazione marketing, gestite abilmente, grazie agli algoritmi disponibili, per coltivare camere dell’eco (nicchie) dentro le quali tutti i gatti sono neri e tutti pensano, sentono e si comportano in modo simile. Più della tanto decantata e celebrata (finta) libertà personale, si va in cerca di autonomia, di giudizio e come incondizionata libertà di esercitarla, dentro spazi che la possano tutelare. 

Mentre dentro queste piattaforme siamo diventati tutti più prevedibili, quantificabili e misurabili, la navicella[9] “stultifera” investe su connessioni non registrabili, che sfuggano alla “documanità” e alla documentazione, che esprime esperienze e vissuti in grado di resistere alla loro semplice trasformazione in contenuto e mira al contrario a costruire etiche della responsabilità. Conta sul non conformismo e sull’imprevedibilità dei suoi passeggeri, sui loro comportamenti non lineari, sulla loro fobia alle camere dell’eco, sulle loro scelte, sulle loro esperienze che nascono dagli spazi della realtà da essi frequentati. Le attività rese possibili dal viaggio non hanno bisogno di essere monitorate, misurate nelle loro prestazioni, nascono da motivazioni individuali profonde, sentimentali, non ricercano modi di essere e di farsi vedere, non perseguono mode o stili di vita mainstream, sono spalmate nel tempo lento della navigazione, non sono malate di performance e di narcisismo, non corrono ma celebrano il “festina lente” (tartaruga con vela), hanno bisogno di pause, di conversazioni, di rallentamenti, hanno bisogno di connessioni, interazioni, relazioni, che possono nascere su piattaforme social ma che di queste piattaforme possono fare a meno. La ricerca è finalizzata a vivere esperienze autentiche insieme ad altri, a coltivare sensibilità e sperimentare valori condivisi. 

La scelta della Stultiferanavis si manifesta in forma di disimpegno e in minore coinvolgimento sulle piattaforme social. Non è una fuga o un abbandono totale, è una presa di distanza frutto di lucidità di pensiero e di consapevolezza su cosa rappresenta oggi il mondo digitale. La consapevolezza nasce dal non essersi fatti convincere della infallibilità soluzionistica della proposta tecnologica e di percepire quanto essa sia piena di crepe, di interstizi, nei quali è possibile operare, con azioni, forme di resistenza alle quali l’algoritmo faccia fatica a rilevare, a riconoscere e a contrastare. Abitando su queste piattaforme è nelle crepe che bisogna operare, con la consapevolezza che le crepe ci sono, vi si può guardare attraverso, si possono allargare. 

Non servono tecniche particolari per attraversarle, è sufficiente coltivare sensibilità e offrire idee su come abitare e dilatare queste crepe. Lo si può fare sperimentando l’ambiguità, il muoversi di lato, come modo di nascondersi dentro le pieghe della narrazione conformistica gestita dall’algoritmo. Si abitano tutti gli spazi “liberi”, che anche sulle piattaforme continuano a esistere, per rilasciare e condividere i messaggi che si vogliono far conoscere, per instillare dubbi (“se qualcuno dubita, allora vive”), per porre domande, per dialogare gentilmente e con cordialità ma fermezza, con chi esprime pensieri diversi, spesso omologati e sentiti come sbagliati o non sufficienti. 

Bisogna operare per mantenere porte aperte, per costruire alternative, per aprirsi ai tanti “possibili” esistenti.

L’obiettivo non deve essere quello di criticare o opporsi ai pensieri e ai concetti espressi ma suggerire un ripensamento dei termini e delle parole usate, dei concetti stessi, una riflessione sincera e profonda della nostra esistenza collettiva come esseri umani. La postura da assumere non è polemica o da crociata, non è neppure una battaglia di retroguardia, bisogna operare per mantenere porte aperte, per costruire alternative, per aprirsi ai tanti “possibili” esistenti. Non si tratta di provocare il crollo di dighe metaforiche o reali, ma di ritrovare e restituire pieno significato e senso alle “cose”, rompendo gli schemi che si sono imposti e cercando di individuare prospettive per migliori condizioni di vita. 

La necessità di abitare meno le piattaforme e di mettersi in viaggio su una navicella nasce dalla conoscenza e dalla consapevolezza di cosa siano diventati i mondi digitali online e dai molteplici limiti che impongono al nostro agire individuale. Se si hanno sensazioni, pensieri, idee diverse da quelle mainstream, ogni contenuto critico espresso non serve ad alimentare alcuna riflessione critica ma finisce per essere semplicemente assorbito e trasformato in altri contenuti utili a confermare la narrazione dominante, anche con nuove iniziative marketing e promozionali. Il pensiero altro, diverso, rischia sempre di essere cooptato, annichilito e usato. Chi non dispone dell’adeguata consapevolezza di quanto le piattaforme agiscano a livello cognitivo non comprendono i meccanismi in azione e finiscono per diventare complici e semplice carburante per essi. In quest’ottica le azioni si lasciano cooptare e gli autori si cooptano da soli. 

La Stultiferanavis non è una fortezza, neppure una torre, è una zona temporaneamente liberata, dalle forme e finalità difficilmente categorizzabili e misurabili, se si usano i canoni oggi vigenti come quelli della visibilità, della reputazione, della capacità di influenzare, delle performance, ecc. Non nasce come cittadella difensiva ma neppure come semplice atto di denuncia, un atto che da solo non basta più. Bisogna fare altro e bisogna farlo in modi diversi, innovativi, obliqui. Chiamiamo la Stultiferanavis una zona di invisibilità algoritmica, comunitaria, forse anche un po’ utopica, conversazionale e relazionale (ad esempio nella condivisione di pratiche, gesti, conversazioni, eventi, ecc.), sulla quale sia possibile sperimentare modi di dialogare, collaborare, condividere al di fuori delle scelte e del controllo dell’algoritmo, esterne alla categorizzazione algoritmica del digitale. 

La nave può essere vista come una follia, un sogno, una assurdità, una proposta senza soluzioni, ma anche come una espressione di saggezza, critica, etica ed estetica, dalla postura artistica, poetica e filosofica. Non ha alcuna intenzione di operare per riaffermare il valore di verità ritenute oggettive, ma investe sul racconto personale, sul vissuto delle persone, sulla loro irriducibilità umana. Punta sulle esperienze più che sulle narrazioni. Si muove e si sposta là dove le cose succedono, coltivando legami vivi, tra persone, non tra profili digitali. Aspira a dare forma a nuove tipologie di intelligenza collettiva declinate in forme di resistenza, che nascano dal lavoro collaborativo di persone che hanno definito i contorni di una intelligenza collettiva diversa, umana. Tanti modi possibili per resistere all’inevitabilità della proposta tecnologica, del Technium.

Come partecipare e salire a bordo? Semplice: leggendo e scrivendo!

  

BIBLIOGRAFIA 

  • Jainwei Xun, Ipnocrazia, Edizioni Tlon, 2024
  • Slavoj zizek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, 2011
  • Miguel Benasayag, Corpi viventi. Pensare e agire contro la catastrofe, Feltrinelli, 2022
  • Miguel Benasayag, La tirannia dell'algoritmo, Vita e Pensiero, 2020
  • Francois Jullien, Riaprire dei possibili. De-coincidenza, un'arte di operare, Orthotes, 2024
  • Kevin kelly, L'inevitabile. Le tendenze tecnologiche che rivoluzioneranno il nostro futuro, Il Saggiatore, 2017
  • Kevin Kelly, Quello che vuole la tecnologia, Codice, 2011
  • Umberto Galimberti, L'etica del viandante, Feltrinelli, 2023
  • Carlo Mazzucchelli, Nostroverso – Pratiche umaniste per resistere al Metaverso, Delos Digital, 2023
  • Antonio R. Damasio, L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995
  • Michele Ciliberto, Il sapiente furore Vita di Giordano Bruno, Adelphi, 2020
  • Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza ArtificialeIl Mulino, 2023

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Note

[1]Gli esseri viventi non sono affetti passivamente da un ambiente circostante. In realtà è la loro dinamica interna, il loro agire, che dà senso e coproduce il mondo. […] L’agire è ciò che sfugge al riflesso, non essendo catturato in circuiti effettivi predeterminati. […] Ogni agire è ancorato alla possibilità di immaginare altri possibili. Tale immaginario implica sempre una produzione in cui convergono la conoscenza, l’intuizione e quella attività di conferimento di senso che appartiene al vivente”. Miguel Benasayag, Corpi Viventi, Feltrinelli, 2021

[2]Le tecnologie si evolvono, ma i rapporti di dominio restano saldi perché si fanno non solo più complesi, ma anche più invisibili.” (Remo Bodei, Dominio e sottomissione, Il Mulino, 2029)

[3]Occorre partire, consapevolmente, dalla situazione di noi umani entro il mondo: una condizione antropologica di “intersoggettività”, per la quale noi stiamo saldi assieme, o cadiamo assieme. In senso proprio, noi dialoghiamo, anzi siamo un colloquio, e non c’è modo migliore per poterci autodefinire, anche se l’espressione “siamo un colloquio” può sembrare ardita. Rammentando l’antica sapienza orientale, “siamo tutti come perle unite da un unico filo”[1]; perle preziose, tutte differenti ma similissime nella loro vertiginosa sequenza; se il filo si spezza, diviene difficile ricostituire il legame perduto, essendo quel vincolo altrettanto prezioso delle perle che annoda.” (Giuseppe Goisis, Intervista filosofica pubblicata su Stultiferanavis e SoloTablet)

[4] "Soltanto in un modo, ovvero offrendo opportunità […] la possibilità di conseguire buoni risultati si chiama tecnologia […] “ la tecnologia espande la possibilità che chiunque possa trovare uno sbocco per le proprie inclinazioni personali…per questo motivo abbiamo l’obbligo morale di incrementare il meglio della tecnologia” […] “questa è la tecnologia: l’accumulo di saperi, pratiche, tradizioni e scelte che consente a un singolo individuo di generare e prendere parte a un numero maggiore di idee…” (Kevin Kelly, Quello che vuole la tecnologia)

[5] Il velo di Maya è quindi la rappresentazione di tutto ciò che nasconde la realtà delle cose. Arthur Schopenhauer nella propria filosofia sostiene che la vita è sogno e che questo "sognare" sia innato (quindi la nostra unica "realtà") e obbedisca a precise regole, valide per tutti e insite nei nostri schemi conoscitivi. (Wikipedia)

[6] La de-coincidenza è una terminologia introdotta da Francois Jullien: “termine chiave che descrivel’abilità contestuale di incrinare situazioni pietrificate in un presente immobile, sterile, per restituirle a un avvenire. La capacità di de-coincidere significa dunque precisamente questo: che tramite lo scarto con l’adeguazione […] vengono scoperti dei nuovi possibili, fino a quel momento mai considerati.”

[7] Tutte le nostre azioni sembrano aver preparato l’ambiente perfetto per la presa di controllo di un’entità come l’intelligenza artificiale. Il mondo globalizzato di oggi in realtà è diventato sempre più monolitico e gerarchizzato, più facile da essere governato e dominato. Lo è il mondo interiore ormai soggetto a quello che Umberto Galimberti ha definito l’inconscio tecnologico (così fan tutti!). 

[8]Non bisogna mai dimenticare che quando parliamo di intelligenza, di coscienza, di emozioni o di lavoro delle macchine, usiamo un linguaggio metaforico, attribuendo loro qualità di cui sono prive. Il tipo di logs, do coscienza o di autocoscienza di cui sono dotate è costituito da algoritmi, sequenze di comandi da eseguire passo per passo come ricetta per l’esecuzione di determinate operazioni.” (Remo Bodei, Dominio e sottomissione, Pag. 300)

[9]Per correr miglior acque alza le vele - ormai la navicella del mio ingegno, - che lascia dietro a sé mar sì crudele; - e canterò di quel secondo regno - dove l’umano spirito si purga - e di salire al ciel diventa degno.”     (Dante, Purgatorio)


StultiferaBiblio

Pubblicato il 05 febbraio 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – STULTIFERANAVIS Co-fondatore

c.mazzucchelli@libero.it http://www.solotablet.it

Gli esseri viventi non sono affetti passivamente da un ambiente circostante. In realtà è la loro dinamica interna, il loro agire, che dà senso e coproduce il mondo. […] L’agire è ciò che sfugge al riflesso, non essendo catturato in circuiti effettivi predeterminati. […] Ogni agire è ancorato alla possibilità di immaginare altri possibili. Tale immaginario implica sempre una produzione in cui convergono la conoscenza, l’intuizione e quella attività di conferimento di senso che appartiene al vivente”. Miguel Benasayag, Corpi Viventi, Feltrinelli, 2021

Le tecnologie si evolvono, ma i rapporti di dominio restano saldi perché si fanno non solo più complesi, ma anche più invisibili.” (Remo Bodei, Dominio e sottomissione, Il Mulino, 2029).

Occorre partire, consapevolmente, dalla situazione di noi umani entro il mondo: una condizione antropologica di “intersoggettività”, per la quale noi stiamo saldi assieme, o cadiamo assieme. In senso proprio, noi dialoghiamo, anzi siamo un colloquio, e non c’è modo migliore per poterci autodefinire, anche se l’espressione “siamo un colloquio” può sembrare ardita. Rammentando l’antica sapienza orientale, “siamo tutti come perle unite da un unico filo”[1]; perle preziose, tutte differenti ma similissime nella loro vertiginosa sequenza; se il filo si spezza, diviene difficile ricostituire il legame perduto, essendo quel vincolo altrettanto prezioso delle perle che annoda.” (Giuseppe Goisis, Intervista filosofica pubblicata su Stultiferanavis e SoloTablet)

"Soltanto in un modo, ovvero offrendo opportunità […] la possibilità di conseguire buoni risultati si chiama tecnologia […] “ la tecnologia espande la possibilità che chiunque possa trovare uno sbocco per le proprie inclinazioni personali…per questo motivo abbiamo l’obbligo morale di incrementare il meglio della tecnologia” […] “questa è la tecnologia: l’accumulo di saperi, pratiche, tradizioni e scelte che consente a un singolo individuo di generare e prendere parte a un numero maggiore di idee…” (Kevin Kelly, Quello che vuole la tecnologia)

Il velo di Maya è quindi la rappresentazione di tutto ciò che nasconde la realtà delle cose. Arthur Schopenhauer nella propria filosofia sostiene che la vita è sogno e che questo "sognare" sia innato (quindi la nostra unica "realtà") e obbedisca a precise regole, valide per tutti e insite nei nostri schemi conoscitivi. (Wikipedia)

La de-coincidenza è una terminologia introdotta da Francois Jullien: “termine chiave che descrivel’abilità contestuale di incrinare situazioni pietrificate in un presente immobile, sterile, per restituirle a un avvenire. La capacità di de-coincidere significa dunque precisamente questo: che tramite lo scarto con l’adeguazione […] vengono scoperti dei nuovi possibili, fino a quel momento mai considerati.”

Tutte le nostre azioni sembrano aver preparato l’ambiente perfetto per la presa di controllo di un’entità come l’intelligenza artificiale. Il mondo globalizzato di oggi in realtà è diventato sempre più monolitico e gerarchizzato, più facile da essere governato e dominato. Lo è il mondo interiore ormai soggetto a quello che Umberto Galimberti ha definito l’inconscio tecnologico (così fan tutti!). 

Non bisogna mai dimenticare che quando parliamo di intelligenza, di coscienza, di emozioni o di lavoro delle macchine, usiamo un linguaggio metaforico, attribuendo loro qualità di cui sono prive. Il tipo di logs, do coscienza o di autocoscienza di cui sono dotate è costituito da algoritmi, sequenze di comandi da eseguire passo per passo come ricetta per l’esecuzione di determinate operazioni.” (Remo Bodei, Dominio e sottomissione, Pag. 300)

Per correr miglior acque alza le vele - ormai la navicella del mio ingegno, - che lascia dietro a sé mar sì crudele; - e canterò di quel secondo regno - dove l’umano spirito si purga - e di salire al ciel diventa degno.” (Dante, Purgatorio)

Mondo materiale e universi virtuali sono ormai intrecciati, si sovrappongono e coesistono, hanno assunto tutti una patente di realtà che fonde insieme fatti e loro rappresentazioni, individui in carne e ossa e loro profili digitali. Il mondo onlife non ha sostituito quello offlife, la società delle reti sociali non ha cancellato le forme fisiche e territoriali di socialità. Si assiste a una vita distribuita, per molti in modo ingiusto e disuguale, in mondi tra loro diversi ma vissuti come tra loro assimilabili, si vive la socievolezza dei social network come socialità anche se in realtà legata a modalità ludiche, puramente conversazionali e strumentali di relazionarsi. La tecnologia entra in un rapporto protesico e immediato (automatico) con il nostro corpo; i nuovi apparati, dispositivi e piattaforme ristrutturano in continuazione condizioni, situazioni e forme delle nostre esperienze.