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Quando pensiamo all’energia e al nostro futuro, immaginiamo spesso una corsa verso innovazioni straordinarie: pannelli solari, turbine eoliche, idrogeno verde. Ma dietro queste immagini c’è molto di più. L’energia è una storia di scelte, di paure e di errori, di tentativi e di idee abbandonate. È il riflesso di come una società racconta se stessa e il proprio rapporto con la natura e la tecnologia. In questo viaggio, ci muoveremo tra filosofia, storia e scienza per capire come la nostra visione dell’energia sia il risultato di narrazioni collettive e di razionalità spesso smarrite. Scopriremo perché il nucleare, da sempre temuto in Italia, è invece al centro di un dibattito cruciale per la nostra indipendenza e il nostro futuro. Perché l’energia non è solo una questione tecnica: è lo specchio di chi siamo e di chi vogliamo diventare.


Le società umane si reggono su due pilastri fragili quanto indispensabili: la narrazione e la razionalità. Da un lato, la narrazione è il tessuto invisibile attraverso cui gli individui si riconoscono parte di una comunità, interpretano il proprio ruolo nella storia e attribuiscono senso alla loro esistenza. Dall’altro, la razionalità rappresenta lo strumento di orientamento critico, la bussola che consente di discernere il vero dal falso, di costruire un sapere che sia intersoggettivo e condiviso. La modernità ha spesso presentato queste due dimensioni come antagoniste, immaginando una progressiva vittoria della ragione scientifica sulle mitologie collettive, un affrancamento dall’irrazionale attraverso la costruzione di un sapere tecnico capace di illuminare ogni angolo buio della realtà.

ogni narrazione collettiva è un’operazione di costruzione di senso

In realtà, come ci hanno insegnato Paul Ricoeur e Hannah Arendt, ogni narrazione collettiva è un’operazione di costruzione di senso che richiede il contributo critico della ragione, così come ogni esercizio di razionalità non può prescindere da una cornice narrativa che ne indichi lo scopo e il significato ultimo. La crisi della nostra epoca nasce proprio dalla frattura di questo equilibrio millenario: la dissoluzione delle grandi narrazioni condivise, quella che Lyotard ha chiamato la crisi delle metanarrazioni, ha lasciato il campo libero a una proliferazione di micro-storie decontestualizzate, frammentate, incapaci di costruire un orizzonte comune di senso. Allo stesso tempo, la razionalità critica è stata progressivamente ridotta a ragione strumentale, asservita all’ottimizzazione tecnica e svuotata di qualsiasi capacità di interrogarsi sul fine ultimo delle proprie operazioni.

In questo vuoto narrativo e critico, si è installata la logica dell’infocrazia. Byung-Chul Han ha descritto con lucidità come le società digitali abbiano trasformato l’informazione da strumento di emancipazione in meccanismo di controllo. L’abbondanza informativa non ha prodotto maggiore conoscenza, ma una condizione di rumore permanente, in cui il cittadino è al tempo stesso produttore e vittima di un flusso di dati che lo sovrasta e lo disarma. La narrazione collettiva evapora, sostituita da una sequenza infinita di micro-contenuti incapaci di costruire memoria o progetto. In questo orizzonte di presente continuo, l’errore non è più vissuto come momento di apprendimento, ma come deviazione inaccettabile da una normalità preconfezionata, da correggere immediatamente con un nuovo flusso di dati.

È proprio il ruolo dell’errore a indicare la qualità epistemologica di una civiltà. Le società tradizionali, quelle che ancora conservano rituali di passaggio, sanno che ogni crescita autentica passa attraverso un confronto diretto con il fallimento, l’imprevisto e la deviazione. Ogni rito di iniziazione è, di fatto, un incontro con l’errore: l’adolescente che diventa adulto non perché protetto dal rischio, ma perché esposto a esso, obbligato a confrontarsi con i propri limiti e a trasformare ogni caduta in un passo verso la consapevolezza. In una società che ha cancellato ogni rito iniziatico, l’errore è stato privatizzato, medicalizzato o spettacolarizzato, trasformato in contenuto da consumare o in patologia da correggere.

Il project management, in quanto disciplina applicata alla gestione della complessità, ha ereditato dalla modernità tecnica questa ambivalenza nei confronti dell’errore. Da un lato, ogni progetto incorpora nel proprio ciclo di vita una serie di strumenti per anticipare, prevenire e correggere gli errori. Dall’altro, è proprio attraverso l’errore che i project manager più esperti imparano a gestire l’incertezza, a costruire competenze trasversali e a riconoscere i limiti epistemici della pianificazione. Il progetto, proprio come il rito iniziatico, è un processo di apprendimento nel quale ogni deviazione rispetto all’atteso non è semplicemente un difetto da eliminare, ma un’occasione per riflettere sulla complessità del reale e sulla fragilità della previsione.

Questa lezione, che appare tanto chiara nella pratica professionale, viene sistematicamente rimossa dal dibattito pubblico, soprattutto quando si parla di transizione energetica. La transizione ecologica è stata ridotta a una narrazione binaria, in cui le energie rinnovabili rappresentano il bene assoluto e le fonti tradizionali — e in particolare il nucleare — incarnano il male da espellere. Non esiste razionalità critica in questa rappresentazione: esiste solo una mitologia tecnologica, che si alimenta di un flusso continuo di immagini rassicuranti, incapace di confrontarsi con la complessità della realtà fisica, economica e geopolitica.

L’Italia è l’emblema di questa schizofrenia energetica. Circondata da oltre cento centrali nucleari operative, che alimentano in parte anche il proprio fabbisogno energetico attraverso l’importazione di energia francese, ha scelto di rinunciare completamente al nucleare in nome di un principio di precauzione elevato a dogma ideologico. Il risultato è una dipendenza strutturale da fornitori esterni, non solo la Francia, ma anche gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo, le cui oscillazioni politiche e commerciali determinano la nostra sicurezza energetica. La narrazione anti-nucleare, costruita sull’emotività post-Chernobyl e alimentata da decenni di disinformazione, ci ha consegnato a una condizione di eterodirezione strategica, nella quale ogni tentativo di pianificazione autonoma è impossibile.

L’errore di questa scelta non è semplicemente tecnico o economico. È un errore epistemologico, che deriva dalla confusione tra prudenza e paralisi, tra precauzione e paura. Rinunciare al nucleare non ha aumentato la nostra sicurezza, l’ha diminuita, trasferendo altrove i rischi e privandoci della capacità di governarli. Come in ogni processo di apprendimento negato, il risultato è una società infantilizzata, incapace di accettare la propria quota di incertezza e delegata a tecnologie e decisioni prese altrove.

Recuperare il nucleare in Italia non è solo una scelta energetica, è una questione di dignità epistemologica e politica. Significa riappropriarsi della capacità di narrare la propria transizione energetica senza cedere né all’infodemia catastrofista, né alla tecnocrazia ottimistica. Significa accettare la complessità come dato ineliminabile, e riconoscere che ogni progresso autentico passa attraverso l’errore, la revisione critica e la costruzione di una memoria collettiva capace di trasformare ogni fallimento in sapere condiviso.

In un’epoca di infocrazia, di verità deboli e di narrazioni frammentate, la questione nucleare italiana è molto più di un dibattito tecnologico: è la cartina di tornasole della nostra maturità culturale e politica. È la prova di quanto siamo ancora capaci di costruire una narrazione comune fondata su una razionalità critica, capace di integrare scienza, storia, responsabilità e coraggio. Senza questa integrazione, ogni transizione energetica sarà solo un’operazione cosmetica, destinata a infrangersi contro i limiti fisici della realtà e contro l’incapacità collettiva di immaginare un futuro che non sia solo una ripetizione ossessiva delle nostre paure.


Pubblicato il 04 marzo 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / “omnia mea mecum porto”: il vero valore risiede nell’esperienza e nella conoscenza che portiamo con noi