Go down

In questo dialogo immaginario fuori dal tempo, Fulcenzio Odussomai – filosofo apocrifo e artigiano del pensiero – incontra due figure emblematiche della storia del digitale: Alan Turing, matematico visionario, e Steve Wozniak, ingegnere creativo e giullare del silicio. Ne nasce una conversazione inattesa, intensa e ironica, dove l’errore non è più un nemico ma un maestro, un varco, una soglia di comprensione. Tra aforismi, confessioni e intuizioni, il bug si trasforma in figura simbolica della condizione umana e della progettazione consapevole. Un dialogo sul fallimento come forma di conoscenza, e sul codice come metafora dell’esistenza.


Il luogo è un’intersezione. Non tra due strade, ma tra tre dimensioni mentali.
Una stanza disegnata da Escher, piena di lavagne, tastiere IBM, pezzi di frutta, e un gatto che non si decide a essere vivo o morto.

Fulcenzio si presenta con un taccuino. Turing osserva. Wozniak sorride e smonta una calcolatrice per gioco.

FULCENZIO:
Se l’errore fosse una persona, chi sarebbe?

TURING:
Una guida cieca.
Non vede dove va, ma sa dove ti sta portando.

WOZNIAK:
Un amico scomodo.
Quello che ti dice in faccia che hai sbagliato, ma poi ti paga la birra.
Il bug è rock’n’roll.

FULCENZIO:
Molti progettisti software oggi trattano l’errore come un nemico da eliminare, come un fastidio.
Perché?

TURING:
Perché confondono il controllo con la comprensione.
Ma controllare un sistema non significa comprenderlo.
Un bug, se ascoltato, ti rivela l’architettura invisibile del pensiero che lo ha generato.

WOZNIAK:
Esatto! Io lo dico sempre: i migliori momenti li ho avuti quando qualcosa non funzionava e ho dovuto “sentire” il circuito.
Il problema è che oggi si testa senza toccare. Senza cuore.
Tutto automatizzato. Ma l’errore ha ancora bisogno di orecchie.

FULCENZIO:
Parlate come se l’errore fosse un maestro zen.

TURING:
Lo è.
Non ha una lingua, ma ti insegna la tua.

WOZNIAK:
E ti insegna anche a ridere di te.
Tipo quella volta che ho invertito due fili e ho bruciato mezzo prototipo.
Ho imparato più in quel giorno che in due corsi al college.
Imparare dall’errore è come suonare una chitarra: devi sbagliare tanto prima di trovare la nota giusta.

FULCENZIO:
E nel project management? Dove tutto è pianificato, stimato, scomposto?
Dove l’imprevisto è una maledizione?

TURING:
La pianificazione è una poesia che si illude di essere algebra.
L’errore, in quel contesto, è come un verso fuori metrica.
Fastidioso, sì. Ma forse è proprio quello che rende il testo memorabile.

WOZNIAK:
Io ho sempre pensato che i piani siano sopravvalutati.
Preferisco prototipare. Fare, rompere, rifare.
Il mio metodo è: “Funziona? No? Allora è interessante.”
Non dico che vada bene per tutti, eh. Ma meglio un bug che ti fa svegliare alle 3 di notte, che una specifica scritta da chi non userà mai il prodotto.

FULCENZIO:
E se dovessimo insegnare a qualcuno come convivere con l’errore?

TURING:
Direi: osserva. Non reagire subito.
Il bug è un comportamento, non solo un difetto.
È un messaggio in una lingua che ancora non parli.

WOZNIAK:
Io direi: gioca.
Sbaglia veloce, correggi con amore, e poi… racconta cosa hai imparato.
Il codice è fatto di storie, non solo di logica.

FULCENZIO:
E se non si impara?

TURING:
Si ripete. Con maggiore danno.

WOZNIAK:
O peggio: si smette di creare.
La paura dell’errore è il vero crash.

FULCENZIO:
Ultima domanda.
Cosa c’è oltre l’errore?

TURING:
La comprensione.

WOZNIAK:
L’invenzione.

FULCENZIO:
Il silenzio.

La stanza si dissolve.
Resta un odore di ozono e grafite.
Sul pavimento, una stringa incompleta lampeggia su un terminale spento:

try { meaning } catch(error) { virtue }

Pubblicato il 24 aprile 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto