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Fulcenzio Odussomai Da un libro mai scritto, un capitolo senza numero e senza tempo. Il presente testo si offre al lettore come una scheggia fuori asse, un frammento sfuggito alla linearità del pensiero occidentale e alla tirannia della numerazione capitolare. Non è il sesto capitolo, né il primo, né l’ultimo. È un affioramento: un capitolo senza tempo, di un libro mai scritto. Un promemoria esistenziale, più che una teoria. A parlare, qui, non è il manager che progetta, ma il pensiero che abita la soglia tra le culture. E la voce che si leva è quella di Ubuntu.


Ubuntu: “io sono perché noi siamo”. Questa locuzione di origine bantu, che la tradizione orale ha saputo conservare nel ritmo delle lingue sudafricane, non è semplicemente un motto comunitario. È, piuttosto, un’ontologia della relazione, un’epistemologia della coesistenza. Ubuntu è la riscrittura del soggetto non come entità autonoma, ma come nodo di una rete vivente (Tutu, No Future Without Forgiveness, 1999).

Nel contesto del project management – disciplina eminentemente occidentale, razionale, tecnocratica – l’incontro con Ubuntu è, al tempo stesso, uno spaesamento e una rivelazione. Il project management, nelle sue canoniche articolazioni Waterfall e Agile, è stato pensato per dominare il tempo, distribuire le risorse, ottimizzare i flussi. Un pensiero ingegneristico lo sorregge: ogni progetto come macchina, ogni milestone come ingranaggio, ogni scadenza come ticchettio dell’orologio della produttività. Ma cosa accade se sovrapponiamo a questa visione la lente di Ubuntu?

Accade che l’intero paradigma si ribalta. Là dove il project manager occidentale è sovrano solitario, arbitro tra Gantt e KPI, il leader ubuntu è facilitatore di legami, interprete dei silenzi, catalizzatore di energie collettive. Il successo non è definito dall’aderenza a un piano, ma dalla qualità delle relazioni umane che si sviluppano durante il percorso.

Nelle società africane precoloniali, la progettualità non è mai stata attività individuale né delegata a un’élite tecnica. La costruzione di un villaggio, la preparazione di una cerimonia, la gestione delle risorse erano compiti collettivi, sorretti da una intelligenza corale, esercitata nel palaver – il dialogo comunitario che ricerca non il voto della maggioranza, ma il consenso condiviso. Qui il manager si dissolve nel gruppo; non comanda, ma ascolta. Non impone, ma custodisce lo spazio della parola altrui (Mbiti, African Religions and Philosophy, 1969).

Persino la relazione con il tempo muta di segno. Il pensiero occidentale concepisce il tempo come vettore lineare, risorsa scarsa, tiranno esigente. Si corre verso una deadline, si misura il successo in ore, minuti, secondi. Ma nelle culture africane, il tempo è un flusso adattivo, kairologico più che cronologico. Un progetto si compie non quando un calendario lo impone, ma quando le condizioni vitali ne permettono il fiorire. La costruzione di una scuola o di un pozzo, ad esempio, si conclude quando ogni membro della comunità ha potuto contribuire in modo significativo, quando l’armonia tra le parti è stata raggiunta.

Tale approccio, ben lungi dall’essere inefficiente, è straordinariamente resiliente. È un sistema vivente, non un diagramma meccanico. Non è un caso che molti progetti di cooperazione internazionale abbiano fallito proprio per aver ignorato questo principio. Le ONG occidentali, spesso imbrigliate in budget predeterminati e tempistiche inflesse, hanno trapiantato modelli estranei sul corpo vivo delle comunità africane, producendo rigetto sistemico. Al contrario, progetti come quello delle biblioteche itineranti in Mali – capaci di adattarsi, viaggiare, cambiare forma in base ai bisogni locali – hanno avuto successo proprio perché radicati in logiche relazionali, non procedurali (Baron, Mobile Libraries and Community Development in Mali, 2012).

Ubuntu, in tal senso, non è solo una visione etica, ma una tecnica dell’umano. Una tecnica che sfida la separazione moderna tra pensiero e azione, tra manager e operaio, tra strategia e tattica. Nelle società africane, la distinzione tra chi pensa e chi agisce è porosa, mobile, continuamente negoziata. Le decisioni emergono da un sapere condiviso, non si impongono per decreto. L’intelligenza è distribuita, il potere è dialogico.

In quest’ottica, la figura del project manager assume tratti inattesi: non più ingegnere del controllo, ma curatore di relazioni, giardiniere di processi, maieuta di possibilità. La sua arte non consiste nel tenere insieme le variabili di un triangolo (tempo, costo, qualità), ma nel generare contesti di fiducia, nel proteggere la voce dei marginali, nel lasciar emergere il nuovo attraverso il confronto.

Curiosamente, tutto ciò trova echi insospettabili nelle più recenti teorie occidentali sull’agilità organizzativa. Le metodologie Agile, nate in seno all’ingegneria del software (Beck et al., Manifesto for Agile Software Development, 2001), propongono iterazioni brevi, feedback continui, team autonomi. Ma mentre l’Agile è figlio di un contesto capitalistico che cerca l’efficienza adattiva, Ubuntu è il riflesso di una cosmologia relazionale: una differenza che non è solo semantica, ma ontologica. Agile è metodo; Ubuntu è mondo.

È per questo che il pensiero africano non va ridotto a un folklore esotico, né incorporato come “best practice” in qualche framework globale. Va ascoltato nella sua alterità, come provocazione epistemica. Va riconosciuto come sapienza altra, come sapere situato che ci obbliga a ripensare cosa significhi, davvero, “gestire un progetto”.

Forse è giunto il momento di smettere di chiedere ai modelli africani di conformarsi agli standard internazionali, e cominciare invece a chiedere agli standard internazionali di aprirsi al respiro più ampio delle culture umane.

Perché, in fondo, la lezione più preziosa di Ubuntu è questa: ogni progetto è un’occasione per diventare più umani, non solo più efficienti. Ogni iniziativa è una scuola di comunità, un laboratorio di empatia, una palestra di reciprocità. E ogni project manager, se vuole essere più che un amministratore di scadenze, deve imparare a farsi discepolo del legame.

Come recita un proverbio africano, che è insieme invito e avvertimento: “Se vuoi andare veloce, vai da solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme.”


Pubblicato il 05 aprile 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / “omnia mea mecum porto”: il vero valore risiede nell’esperienza e nella conoscenza che portiamo con noi

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