Questa immagine dell’acquario non è solo una metafora. È diventata per me una rappresentazione concreta della condizione contemporanea. Le pareti non sono fatte di vetro, ma di metriche, dashboard, strumenti di misurazione, workflow che premiano la reazione rapida, la visibilità, la prevedibilità. A guardarlo da vicino, il sistema in cui lavoriamo ci chiede di essere costantemente misurabili, confrontabili, ottimizzabili. E più siamo immersi in questa logica, più perdiamo la capacità di vedere dove siamo. Non perché ci manchi intelligenza, ma perché siamo finiti in un ambiente che premia l’anticipazione più della comprensione. Ho iniziato a riflettere su questo leggendo alcuni studi neurobiologici, dove si mostra chiaramente come la dopamina – che associamo istintivamente al piacere – sia in realtà legata all’aspettativa, al desiderio. Non a caso, il ciclo del lavoro digitale è costruito su una tensione continua verso l’obiettivo successivo, senza mai fermarsi.
Nel nostro lavoro, questo si traduce nella rincorsa infinita della feature successiva, della delivery che sblocca il pagamento, dello stakeholder soddisfatto, dell’OKR raggiunto. Tutto diventa desiderio non appagato. E questo desiderio, lungi dal generare motivazione autentica, produce una fame che non si placa. È una fame misurata in approvazioni, ticket chiusi, sprint completati, ma che lascia sempre un residuo di insoddisfazione. Mi è capitato spesso di vedere team performanti implodere perché privati di un senso. Perché si può anche avere un burndown chart perfetto e al tempo stesso sentirsi del tutto vuoti. Perché la tensione verso il risultato ha finito per annullare la presenza. Non siamo più lì, siamo già oltre. Siamo proiettati in avanti, come se la realtà fosse solo una serie di ostacoli da superare, mai un luogo in cui sostare.
È qui che ho ripensato a quella frase famosa di David Foster Wallace: “Questa è l’acqua”. L’ho sentita come un avvertimento. Se non impariamo a vedere l’acqua in cui nuotiamo, tutto il nostro sapere tecnico, tutta la nostra competenza, tutta la nostra agilità metodologica non serviranno a nulla. Il lavoro si riduce a una sequenza di azioni che rispondono a stimoli, senza più alcun esercizio di pensiero critico. E il pensiero, nel nostro mestiere, è tutto. Non inteso come elaborazione teorica, ma come disponibilità ad accogliere l’imprevisto. A tollerare il dubbio. A restare, per un attimo, in silenzio. Ho imparato che il sapere, nel nostro ambiente, non si dà mai tutto in una volta. Non si possiede. Non si amministra come un capitale da proteggere. È più simile a un animale selvatico, qualcosa che ci attraversa solo se non cerchiamo di imprigionarlo. Per anni ho trattato il knowledge management come una questione di strutture, di architetture informative, di repository ben organizzati. Ma ogni volta che ho visto funzionare davvero la condivisione del sapere, è stato in uno spazio vuoto: un momento di pausa, una call senza agenda, un commento lasciato a margine.
La memoria, quando è viva, non è archiviazione, ma apertura. Il codice che funziona non è solo quello che risponde ai requisiti, ma quello che riflette una comprensione profonda del contesto. E la comprensione non si costruisce nel tempo veloce della notifica, ma nel tempo lento dell’interrogazione. Accumulare documentazione non è gestire la conoscenza. Accumulare feature non è costruire valore. Accumulare esperienze non è ancora crescere. Crescere significa anche dimenticare, anche lasciar andare. Ho imparato molto più da un bug ostinato che da un ciclo di sviluppo perfettamente lineare. Ho imparato a non fidarmi delle dashboard se non conosco la storia che ci sta dietro. Ho imparato che l’algoritmo che mi suggerisce cosa leggere o cosa testare può anche impedirmi di scoprire qualcosa di davvero nuovo.
Il paradosso è che ci stiamo abituando a lavorare in uno spazio che ci restituisce sempre un riflesso di noi stessi. Lo chiamano personalizzazione, ma è un meccanismo di isolamento. L’altro, nella rete, non è più una voce che ci interroga, ma un’eco che ci conferma. Questo riguarda anche il modo in cui si dialoga nei team: risposte rapide, attese prevedibili, nessuno spazio per l’inatteso. Eppure, ogni progetto importante che ho visto nascere davvero è partito da una deviazione, da un fraintendimento, da un momento in cui qualcuno ha detto qualcosa che non ci aspettavamo. Ciò che non comprendiamo subito è spesso il primo passo verso ciò che davvero vale la pena comprendere. Ma occorre tempo, e il tempo è l’unica risorsa che ci stiamo negando.
La libertà, per come la intendo oggi, non è nella scelta infinita, ma nella capacità di fermarsi a scegliere. Non di reagire. Fermarsi è il vero gesto libero. Non perché interrompe il flusso, ma perché lo riporta a un ritmo umano. Ogni tanto, mi siedo in silenzio. Non come fuga, ma come esercizio di presenza. Non per meditare in senso astratto, ma per ascoltare. Il respiro. Il corpo. La luce. L’aria. Anche questo è project management. Anzi, forse è proprio qui che il lavoro prende senso. In quel momento in cui smetto di voler governare tutto, e mi permetto di sentire dove sono.
L’acquario non si rompe. Ma lo si può vedere. Vederne i margini. Capire che non coincidono col mondo. E nel momento in cui lo vedo, posso anche scegliere — finalmente — dove voglio nuotare. Non è poco. Forse è già tutto.